La fine del regno

Dopo cinque mesi di duri scontri la più grande battaglia del 21° secolo si è conclusa: i russi hanno liberato la città fortificata dai due nomi che in realtà derivano da vicende storiche e amministrative durante l’epoca sovietica e la russofobia nazista esplosa dopo Maidan. Le truppe del raggruppamento Wagner hanno annunciato di aver liberato gli ultimi edifici della città mentre le retroguardie di Kiev si apprestano a sgomberare gli estremi sobborghi, ma si tratta di piccoli reparti isolati che vengono via via rastrellati e probabilmente ancora lì solo per evitare che la notizia ufficiale della conquista e del cambiamento ufficiale del nome della città in Artyomovsk avvenuto ufficialmente oggi ( anche se poi sarò un referendum a decidere definitivamente del nome) raggiunga il G7 e la riunione Bildenberg prima della fine dei lavori: nessuno dovrà confessare le sue colpe in queste assemblee di colpevoli.

Atlantici

Fonte: Antonio Catalano

La visita di Zelensky a Roma sigilla la sciagurata sottomissione italiana all’ordine americano. Un ordine ormai messo in discussione dalla realtà storica che vede un numero sempre più alto di paesi non più disposti ad accettare la supremazia a stelle e strisce. Si è aperta l’epoca del multilateralismo. Piaccia o non piaccia è un semplice dato di fatto. Tutto il resto è propaganda ideologica. Il governo Meloni, formatosi grazie ai consensi tributati a Fratelli d’Italia da larghi strati dei ceti popolari, sta facendo quello che fa un paese assolutamente privo di sovranità: accettare pedissequamente gli ordini atlantici, naturalmente in nome della libertà, nella meschina attesa di raccogliere poi briciole di ricostruzione sul suolo ucraino. Gli Usa/Nato hanno tenacemente abbaiato alla porta della Russia nell’intenzione di scatenarne l’ira. E ci sono riusciti. La Russia è stata messa nelle condizioni di dover intervenire. Non si tratta ora di tifare per l’uno o per l’altro. Si tratta solo di decidere, sul piano della Storia, da che parte collocarsi. Lasciamo stare discorsi astratti sulla libertà e cose del genere, lasciamo questo tema a Rai Storia dell’inglese Paolo Mieli.

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De-dollarizzazione

Quando si parla della guerra in Ucraina si è subito portati a pensare al fronte e a una strana guerra che pare congelata nel massacro che gli Usa e l’Europa hanno a tutti i cosati voluto. Ma il vero fronte è altrove, peer esempio nella crisi bancaria che galoppa negli States e che spalanca le porte dell’Ade per l’impero: vendere il debito del governo degli Stati Uniti era facile quando tutti nel mondo avevano bisogno di detenere dollari per commerciare tra loro. Ma ora che tutti hanno fretta di allontanarsi dal dollaro e di passare al trading nelle proprie valute, il debito statunitense non è più così attraente e lo è ancor meno dopo le ruberie di beni russi che l’occidente ha compiuto e di cui si avvia a pagare le conseguenze.

Il regime di Kiew

Ora il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky si trova di fronte a una scelta: negoziati per la pace o un’ulteriore continuazione delle ostilità. Ma se sceglie la guerra, questo potrebbe portare a nuove perdite territoriali. Questo è scritto in un articolo per la pubblicazione 19FortyFive.
L’esperto militare americano, tenente colonnello dell’esercito americano in pensione Daniel Davis ha espresso la sua opinione.

Secondo Davis, al momento Zelensky non è pronto a cedere territori alla Russia, quelli che dal 2014-2022 il regime di Kiev ha perso il controllo Tuttavia, ha un’altra opzione?

La realtà è che il presidente dell’Ucraina non ha modo di cacciare l’esercito russo,
conclude Davis.

L’esperto sottolinea che la controffensiva delle Forze armate ucraine annunciata da Kiev non porterà al successo sperato. Il regime di Kiev non ha un tale potere militare che gli consentirebbe di sconfiggere l’esercito russo. Pertanto, scrive Davis, i paesi europei, rendendosi conto di ciò, stanno spingendo Zelensky ad avviare negoziati di pace.
Va notato che punti di vista simili alla posizione espressa da Davis si incontrano sempre più spesso nella stampa occidentale. Questo è comprensibile: l’Occidente sta iniziando a stancarsi di finanziare regolarmente l’Ucraina senza alcun progresso da parte del regime di Kiev.
Cresce, quindi, il numero di politici, esperti e giornalisti, che vedono l’unica via d’uscita dalla situazione attuale nel tenere colloqui di pace e delimitare i partiti lungo la linea del fronte già esistente. Altrimenti, secondo molti analisti occidentali, prima o poi la Russia sarà in grado di riconquistare territori molto più vasti.
Fonte: Top War

Traduzione: Luciano Lago

Documenti riservati del Pentagono rivelano anche che il leader ucraino ha proposto di “far saltare in aria” l’oleodotto Druzhba, che fornisce petrolio russo all’Ungheria.
Il presidente ucraino Vladimir Zelensky ha suggerito attacchi contro la Russia e l’oleodotto attraverso il quale l’Ungheria riceve il petrolio russo, nonostante il suo governo abbia dichiarato che Kiev avrebbe usato armi occidentali solo contro le truppe nemiche all’interno del suo territorio e non nel paese vicino, riporta il Washington Post . citando dati statunitensi trapelati .

“A porte chiuse, il leader ucraino ha proposto […] di occupare le città russe per ottenere influenza su Mosca, di bombardare un oleodotto che trasferisce il petrolio russo all’Ungheria, membro della NATO, e di puntare a missili a lungo raggio per colpire obiettivi all’interno dei confini russi “, scrive il rapporto.
“Istinti aggressivi”

Dopo aver rivelato documenti riservati del Pentagono contenenti comunicazioni digitali intercettate tra Zelensky e i massimi comandanti militari del suo paese, il Washington Post sottolinea gli “istinti aggressivi” del leader ucraino che “sono in netto contrasto con la sua immagine pubblica di statista calmo e personaggio stoico.

“È lui [Zelenski] che propone azioni militari rischiose”, afferma il giornale, sottolineando l’indubbia autenticità dei materiali, confermata dal Dipartimento della Difesa Usa.

Inoltre, specifica che in un incontro tenutosi a fine gennaio Zelenski ha suggerito all’Ucraina di “effettuare attacchi in Russia” e dispiegare truppe di terra per “occupare città di confine russe non specificate” e “dare a Kiev un vantaggio nei colloqui con Mosca”.

A febbraio, il presidente ucraino avrebbe “espresso la sua preoccupazione” che Kiev “non abbia missili a lungo raggio in grado di colpire gli schieramenti di truppe russe in Russia o qualsiasi cosa con cui attaccarli”. A quel tempo, il capo dello stato propose al massimo comandante militare ucraino, il generale Valeri Zaluzhni, “che l’Ucraina attaccasse siti di schieramento non specificati” nella regione russa di Rostov, usando invece i droni, si legge nel documento.

Zelensky con Giorgia Meloni

Lo stesso mese, durante il suo incontro con il vice primo ministro del paese Yulia Sviridenko, Zelensky suggerì all’Ucraina di “far saltare in aria” l’oleodotto Druzhba, che fornisce petrolio all’Ungheria, e di “distruggere l’industria ungherese, che si basa in gran parte sul petrolio russo”, indicano materiali classificati.

Il recente articolo conferma un rapporto pubblicato il mese scorso dalla CNN, secondo il quale l’intelligence americana avrebbe avuto accesso alle comunicazioni interne del presidente ucraino.
Tuttavia, durante un’intervista con il Washington Post a Kiev, quando a Zelensky è stato chiesto se avesse effettivamente suggerito di occupare parti della Russia, il presidente ha respinto tali affermazioni come “fantasia “, sebbene abbia difeso il suo diritto di usare tattiche non convenzionali nel conflitto.

Fonti: RT ActuaidadWashington Post

Traduzione: Luciano Lago

Geopolitica

Al contrario di quanto viene detto da quella favolistica occidentale che si designa come informazione, la Russia non ha alcun bisogno di importare armi dalla Cina, se non probabilmente gli stessi chip che importano gli Usa, ma questo scenario ovviamente cambierebbe nel caso che il conflitto si allargasse ad altri Paesi secondo la folle dinamica che Biden sta imprimendo al conflitto: in questo caso la Cina potrebbe fornire in breve tempo una serie di armamenti che sono compatibili col munizionamento russo e che in qualche modo non abbisognano di molto addestramento

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Il modello Lula

Fonte: Massimo Fini

Appena diventato Presidente operativo ed operante del Brasile il primo gennaio del 2023 scalzando Bolsonaro Lula ha messo subito le mani avanti: “non daremo armi all’Ucraina”. Perciò è stato immediatamente bandito dalla comunità Internazionale e considerato un appestato. Quando nei media e fra i politici si parla di “comunità internazionale” riferendosi così a tutto il mondo, ci si dimentica che di questa comunità fanno parte anche la Russia, l’India, la Cina e gran parte del mondo sudamericano e non solo gli Stati Uniti, il Canada e l’Unione Europea.
Dopo una breve visita di parata a New York (l’‘amico americano’ va comunque tenuto buono benché, in realtà, sia nemico non solo del Brasile diretto da Lula ma di tutti i paesi che sotto la guida del venezuelano Chávez hanno intrapreso la via del cosiddetto “socialismo bolivariano”)  Lula ha aggravato la propria posizione agli occhi della “comunità internazionale”, come viene comunemente intesa, andando a far visita una decina di giorni fa a Xi Jinping mentre il ministro degli Esteri russo Lavrov andava contemporaneamente a Brasilia. Fra i progetti cino-brasiliani c’è quello che gli scambi tra i due paesi avvengano in moneta cinese (yuan) e non in dollari, insieme a molti altri tutti ostili agli Stati Uniti. Il concetto di “comunità internazionale” sembra significare, lessicalmente, il mondo intero, così lo si intende quando si scrive o si dice “la comunità internazionale condanna”, “la comunità internazionale approva” e così via, dimenticando che di questa supposta “comunità internazionale” non fanno parte la Russia, l’India, la Cina e buona parte della grande realtà sudamericana. Ne fanno parte Stati Uniti, Canada, Unione Europea, punto e basta.

Gli europei, con gli Stati Uniti, sono troppo concentrati su sé stessi e non vedono le realtà di altre culture e di altri popoli che non sono inseriti nel “totalitarismo democratico” e non si rendono conto che modificazioni in questo mondo “altro” possono avere ed hanno un impatto, esso sì, globale. Prendiamo la posizione di Lula sulla foresta amazzonica, almeno di quella foresta amazzonica che fa parte del Brasile, e quella di Bolsonaro. Bolsonaro aveva disboscato circa un terzo di questa foresta a favore dei garimpeiros e delle grandi fazenda. Questa dovrebbe essere una questione, anzi un dramma, che riguarda tutti i paesi del mondo perché la foresta amazzonica è un polmone indispensabile oltre ad essere un crogiuolo di biodiversità sia nell’universo umano che animale che vegetale. Nelle intenzioni di Lula c’è di dare uno stop a questo disboscamento e di ingaggiare battaglia contro i garimpeiros anche se questo provoca poi ulteriori problemi perché i garimpeiros non sono tutti dei delinquenti e hanno anch’essi il diritto di vivere. Se si ignora l’Amazzonia è poi inutile fare grandi progetti di “transizione ecologica” che per ora si limita alle truffe del “green” e del “bio”, brand concettuali di cui si sono subito appropriati gli imprenditori internazionali, cioè i veri inquinatori.
Lula si inserisce nel grande progetto del “socialismo bolivariano”(dal venezuelano Simon Bolivar che ai primi del Ottocento aveva immaginato una “Grande Colombia” che unisse tutti, o gran parte, i paesi latinoamericani).  A questo progetto aderiscono attualmente Bolivia, Venezuela, Nicaragua, Cuba mentre simpatizzano l’Argentina, Colombia, Perù, Messico. Ovviamente, Brasile e Argentina, per le loro dimensioni devono essere più cauti nei confronti dell’ “amico americano”, mentre, per esempio, in Nicaragua gli ambasciatori Yankee, gli odiati gringos, vengono cacciati a pedate nel sedere.
Che cos’è il “socialismo bolivariano”? Facciamolo dire dalla deputata venezuelana Tania Díaz, che così si è espressa per la casa editrice italiana Mimesis: “Stiamo soppiantando il concetto di democrazia rappresentativa, in cui il popolo elegge rappresentanti che governino per lui, per sostituirlo con quello di democrazia partecipativa e protagonista, che in modo non trasferibile restituisce al popolo il potere di governare, di esercitare la sovranità e lo rende padrone del proprio destino”.  Inoltre, “il socialismo bolivariano” si propone di limitare, se non di eliminare, le grandi differenze sociali che caratterizzano il cosiddetto Occidente senza però negare apoditticamente la necessità dello Sviluppo. Vasto programma avrebbe detto cinicamente De Gaulle. Però noi crediamo che sarebbe bene che i cosiddetti occidentali invece di continuare a guardare ossessivamente il proprio ombelico dessero un’occhiata anche a quello che succede in “altri mondi”, che non sono metafisici o iperuranici, ma operano qui su quella Terra che dovrebbe essere di tutti.

https://www.ariannaeditrice.it/articoli/il-modello-lula

BRICS

Il presidente russo Vladimir Putin e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (MbS) hanno discusso della possibile cooperazione saudita con il blocco delle nazioni BRICS e hanno espresso sostegno alla cooperazione delle due nazioni come parte dell’OPEC+ durante una conversazione telefonica il 21 aprile.

Una dichiarazione rilasciata dal Cremlino afferma: “Il presidente russo si è congratulato con la leadership e il popolo del Regno per l’Eid al-Fitr, che segna la fine del mese benedetto del Ramadan”.

La dichiarazione ha aggiunto che le due parti si sono scambiate opinioni su vari aspetti dell’attualità in Asia occidentale nel quadro degli sforzi russi e sauditi per risolvere le crisi in questa regione.

Putin e MbS hanno anche discusso del coordinamento in corso all’interno dell’OPEC+ per stabilizzare il mercato petrolifero globale.

Il Cremlino ha dichiarato: “Sono state studiate una serie di questioni sull’agenda bilaterale con particolare attenzione all’ulteriore espansione delle relazioni reciprocamente vantaggiose nei settori del commercio, dell’economia, degli investimenti e dell’energia, ed è stata espressa soddisfazione per il livello di coordinamento all’interno dell’OPEC+ al fine di per garantire la stabilità delle relazioni tra i due paesi e il mercato petrolifero globale”.

L’OPEC+, un gruppo di 23 paesi esportatori di petrolio che si riunisce per decidere quanto greggio vendere sul mercato mondiale, ha tagliato ancora una volta la produzione di petrolio all’inizio di aprile con una mossa a sorpresa per sostenere i prezzi del petrolio sulla scia di una crisi bancaria in gli Stati Uniti.

I fallimenti delle banche, in parte, sono dovuti agli aumenti aggressivi dei tassi d’interesse nell’ultimo anno da parte della Federal Reserve statunitense.

Gli aumenti dei tassi di interesse hanno lo scopo di domare l’inflazione negli Stati Uniti e nella più ampia economia mondiale, ma rischiano di causare una recessione economica che potrebbe ridurre la domanda di petrolio e causare un calo dei prezzi, un risultato negativo per le grandi nazioni produttrici di petrolio del mondo.

Nonostante la recente crisi, negli ultimi giorni il prezzo globale del petrolio è sceso , poiché i timori di un rallentamento economico continuano a pesare sul sentiment degli investitori.Il taglio della produzione OPEC+ di marzo segue un precedente taglio nell’ottobre 2022 di 2 milioni di barili al giorno (bpd), che ha sorpreso la Casa Bianca.

Nota: Gli Stati Uniti hanno perso il controllo sul cartello dei produttori di petrolio fra i qauli l’Arabia Saudita che è il maggiore produttore al mondo. Questo dimostra la sconfitta di Washington sul tentativo di riprendere il controllo del mercato del greggio e nello stesso tempo il fallimento del tentativo di isolare la Russia sulla scena internazionale. Un doppio fallimento che avrà delle serie ripercussioni sulla tenuta del gruppo di paesi occidentali che seguono la politica di Washington.

Fonte: The Cradle

Traduzione: Luciano Lago

E adesso?

Date: 21 Aprile 2023Author: ilsimplicissimus 0 Comments

I documenti fatti trapelare dal Pentagono -. credo che nessuno al mondo possa pensare che siano stati diffusi da un ragazzino spia –  sono arrivati quasi esattamente un mese dopo che i russi hanno fatto saltare un bunker a Leopoli, la città  più occidentale dell’Ucraina  dove si trovava il più importante comando della Nato con molti alti ufficiali americani, britannici e polacchi, compresi a quanto pare anche dei generali  Benché  inizialmente si sia saputo pochissimo sull’attacco  se si eccettua  un accenno nel bollettino giornaliero del ministero della guerra russo che faceva intuire come  fosse stato lanciato un missile Kinzhal come rappresaglia per l’attacco terroristico organizzato da Kiev nella regione di Bryansk il 2 marzo, pian piano  sono cominciate a trapelare notizie più precise sull’azione russa che si è rivelata una delle più letali di tutta la guerra. Letale sotto molto punti di vista perché ha esposto in maniera impietosa la debolezza della Nato sotto ogni punto di vista. Il comando dell’Alleanza atlantica, ma anche il vertice delle forze armate ucraine si era sistemato vicino a Leopoli in un complesso sotterraneo potentemente fortificato che al  tempo dell’Unione sovietica era stato il  posto di comando  dell’ex distretto militare dei Carpazi ed era concepito per resistere a un attacco nucleare. Questa struttura segreta, ben protetta, dotata di moderni sistemi di comunicazione nonché di  una fitta rete di difesa aerea, era  stata scelta da generali e colonnelli della Nato sin dal 2014 quando scoppiarono le prime ostilità in Donbass a ulteriore testimonianza del fatto che era la guerra l’obiettivo finale degli americani e di loro lacchè europei.

In effetti questa fortezza posta a 120  metri sotto il suolo e incapsulata da  molti metri di cemento armato infondeva un tale senso di sicurezza che alla fine ha portato i suoi abitanti a violare anche le più ovvie regole di sicurezza tanto che  a volte dozzine di macchine si radunavano all’ingresso del quartier generale anche in pieno giorno permettendo così alla sorveglianza satellitare russa di individuare la tana del nemico ed elaborare un piano di distruzione da grandissima distanza, per non mettere in allarme i comandi sotterranei e indurli a traslocare altrove. Non si può infatti pensare di distruggere un bunker di questa profondità con normali missili, né era sensato bombardalo con ordigni termobarici anche da una tonnellata e mezza perché occorreva  colpire punti precisi cosa non  esattamente facile viste le potenti difese aeree che erano state allestiye.  Così i russi hanno scelto di lanciare da 2000 mila chilometri di distanza due missili ipersonici Kinzhal, inintercettabili ciascuno con una testa esplosiva di 500 chili che sono arrivati sull’obiettivo a 13 mila chilometri orari con un impatto spaventoso e una precisione inferiore al metro: nessuno degli oltre 300 altri ufficiali presenti si è salvato.

Il presidente brasiliano Lula da Silva ha chiesto l’abbandono del dollaro nel commercio mondiale

Il presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva, durante la sua prima visita di stato in Cina da quando è tornato in carica, ha esortato i paesi in via di sviluppo ad abbandonare il dollaro nel commercio internazionale a favore delle proprie valute. Lo riporta il Financial Times.

Lula da Silva ha fatto appello al gruppo di paesi BRICS (oltre a Brasile e Cina, include Russia , India e Repubblica del Sud Africa ) con un appello a porre fine al dominio del dollaro e sviluppare la propria valuta alternativa da utilizzare nel commercio . Il presidente del Brasile, parlando alla New Development Bank (istituita dai paesi BRICS) a Shanghai , ha rivolto al pubblico delle domande: “Chi ha deciso che le nostre valute sono deboli e non hanno valore in altri paesi? Chi ha deciso che il dollaro diventasse la valuta principale dopo l’abolizione del gold standard?

L’appello di Lula da Silva a sbarazzarsi della dipendenza dal dollaro sostiene i crescenti sforzi di Pechino per utilizzare lo yuan per regolare le transazioni internazionali di materie prime. Il leader cinese Xi Jinping cercherà di convincere il presidente brasiliano in una riunione del 14 aprile a sostenere una serie di programmi di politica estera di Pechino, affermano gli esperti della pubblicazione. Tra queste, l’ iniziativa One Belt, One Road introdotta nel 2013 , che prevede l’attivazione di progetti di commercio e investimento internazionale che coinvolgono più Paesi e l’utilizzo di capitali provenienti dagli Stati interessati. Hanno aderito 150 paesi.

Fonte: Agenzie

Traduzione: Luciano Lago

Europa al bivio

Ci vuole poco a capire come tutto questo sia il frutto complessivo di vecchie e fumose ossessioni britanniche per il centro dell’Asia, unite alle teorie messe a punto da grandi vecchi guerrafondai come Kissinger e Brzezinski che hanno portato nelle vene dell’America antichi veleni che tornano a formare incubi: se infatti le speranze di Washington dovessero per ipotesi realizzarsi la Russia userebbe il suo arsenale nucleare che è superiore per grandezza e cosa ancora più importante per qualità a quelli occidentali. Invano Mosca tenta di far comprendere agli Usa che essi hanno imboccato una strada senza uscita, ma a Washington non sono nemmeno in grado di concepire la propria sconfitta, non hanno un piano B e la loro rabbia aumenta nel momento in cui si rendono conto di aver buttato alle ortiche la possibilità di dividere Russia e Cina e di aver invece favorito la loro unione, che è un osso che non possono mordere.