Famosa è la massima: “chi dice democrazia dice organizzazione, chi dice organizzazione dice oligarchia, chi dice democrazia dice oligarchia.”
Anche gli Stati Uniti d’America, spesso ancora definiti come “più grande democrazia del mondo” a discapito dell’India, sembrerebbero non sfuggire a questa legge della società: dietro i due storici partiti americani, il repubblicano e il democratico, si nasconderebbe in realtà un unico establishment che, elezione dopo elezione, anno dopo anno, rimarrebbe saldamente al potere nonostante l’alternanza di facciata.
L’oligarchia in questione è spesso definita “atlantica” nei nostri articoli, dal momento che poggia sull’asse Londra-New York e raccoglie i papaveri della City inglese e di Wall Street: è l’élite anglofona, liberal, mondialista, che dirige le principali banche d’affari e sin dal XVIII secolo controlla i destini del Regno Unito. Custode del liberismo economico e della globalizzazione, geneticamente allergica alle potenze continentali (Germania, Russia e Cina) che rischiano di insidiare la sua egemonia sui mari, quest’oligarchia è animata dal sogno di un governo mondiale (o “universale”, per usare il termine massonico più appropriato) in cui dovrebbero diluirsi anche gli Stati Uniti d’America.
È l’oligarchia atlantica che, oltre alle principali piazza finanziarie mondiali, controlla anche le corazzate dell’informazione: si comincia col The Times fondato a Londra nel 1785 e si termina con la CNN nata ad Atlanta nel 1980. Pur disponendo di uno strumento di influenza già capillare ed influente come la massoneria, a partire dal secondo decennio del Novecento quest’élite fonda una serie di organizzazioni ad hoc, studiate per consentire ai suoi elementi di spicco di rimanere in contatto e di discutere delle principali problematiche: nasce così nel 1920 la Chatham House per l’Inghilterra, nel 1921 il Council on Foreign Relations per gli Stati Uniti, nel 1954 il gruppo Bilderberg per l’Europa e gli USA, nel 1973 la Commissione Trilaterale per gli USA-CEE-Giappone, nel 2007 l’European Council on Foreign Relations per l’Unione Europea.
Dietro la democrazia americana si nasconde quindi una tentacolare e plurisecolare oligarchia, sempre pronta a difendere con grande spregiudicatezza i suoi interessi: sebbene si sorvoli sull’argomento, la storia degli USA è infatti anche un racconto a tinte fosche, dove non mancano gli omicidi politici e le violente faide mediatico-giudiziarie. Si contano innumerevoli aspiranti alla Casa Bianca uccisi ancor prima della campagna elettorale (come il populista, rivale di Franklin D. Roosevelt e fervente critico della FED, Huey Long, assassinato nel 1935), e ben quattro presidenti eliminati durante il loro mandato (Abraham Lincoln, James Garfield, William McKinley, John Kennedy).
Chiunque ambisca ad entrare o sia entrato alla Casa Bianca, deve quindi ricordarsi che anche il “più potente uomo del mondo” risponde ad un potere superiore (e non è Dio): chi osa disobbedirgli, corre il serio rischio di cadere vittima di qualche congiura. Non c’è dubbio che il “populista” Donal Trump rientri nella casistica dei “disubbidienti” e sia esposto a qualche pericolo: a pochi è sfuggita la minaccia neppure troppo velata della CNN che, alla vigilia del giuramento del prossimo presidente, si è chiesta nel servizio “Disaster could put Obama cabinet member in Oval Office” cosa sarebbe accaduto se Trump ed il suo vice fossero stati assassinati il giorno dell’inaugurazione.
Come abbiamo evidenziato nell’ultima analisi, il prossimo presidente non è un candidato completamente estraneo al sistema: nella sua scalata alla Casa Bianca, Donald Trump si è avvalso di una serie di alleanze che gli saranno certamente utili anche per rimanerci. Pensiamo innanzitutto al premier israeliano Benjamin Netanyahu ed alla destra israeliana, che avevano mal digerito le aperture all’Iran da parte dell’establishment liberal, le sue accuse di discriminazione ai danni dei palestinesi e la sua stigmatizzazione dei nuovi insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Ne è emersa quindi un’alleanza tra “nazionalisti” americani e “nazionalisti” ebraici ai danni dell’establishment atlantico, alleanza peraltro anche “benedetta” dalla Russia di Vladimir Putin, nell’ottica di una spartizione del Medio Oriente e dell’Europa in rispettive sfere d’influenza. Petrolieri e superstiti della Old Economy (costruzioni, siderurgia ed industria leggera) hanno anche salutato con gioia la vittoria del candidato “populista”, allettati dalla prospettiva di norme meno vincolanti e dazi a loro difesa.
Resta però il fatto che la parte preponderante del sistema statunitense, la sullodata oligarchia atlantica, è rimasta frustrata dalla vittoria di Trump: spaventa la sua volontà di liquidare i due bastioni del vecchio ordine liberale, la NATO e la UE, spaventa il desiderio ad una spartizione del mondo con le altre superpotenze, spaventa il rifiuto della missione messianica/universalista degli Stati Uniti a vantaggio di una più concreta realpolitik, spaventa l’intenzione di smontare la già traballante globalizzazione a colpi di dazi e barriere, spaventa l’accento sul binomio industria-inflazione , opposto di quello finanza-deflazione tanto caro all’élite della City e di Wall Street.
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