La Cina compie una svolta globale

Dr. Stephen Leeb: “Oh, ironia. Il presidente Trump potrebbe essere quello che risolve i problemi commerciali degli USA. Ma non coi dazi o il forte riarmo dei nostri partner commerciali… Piuttosto arriverà dalla Cina che accelera la transizione a una nuova valuta di riserva, probabilmente un paniere di valute basate sull’oro, creando un sistema monetario centrato sull’oro. La Cina ha gettato accuratamente le basi per avere i mezzi per definire la nuova valuta di riserva che influenzerà l’Oriente, se non il mondo”. E con la Cina non solo maggiore trader del mondo ma anche possessore di un esercito in grado di proteggere i partner commerciali orientali, le sue capacità sono indubbie.

La Cina ora commercia il petrolio con lo Yuan-oro
Segnatevi la data: oggi è iniziato il commercio del nuovo benchmark del petrolio orientale di Shanghai. I fornitori di petrolio possono ora coprire i loro yuan in futures basati sull’oro, la cui compensazione sarà in oro. In effetti, il petrolio ora viene commercializzato in yuan-oro. Il segnale che la Cina vuole accelerare il commercio in yuan e oro ben oltre il petrolio, è apparso in un articolo sul South China Post di fine febbraio. L’articolo citava Cheung Tak-hay, presidente della Borsa dell’oro di Hong Kong, dire: “La Borsa dell’oro di Hong Kong è in trattative con Singapore, Myanmar e Dubai per stabilire un corridoio merci in oro per promuovere prodotti denominati in yuan nell’ambito dell’Iniziativa Cintura e Via della Cina. Il corridoio delle merci d’oro… potrebbe collegare il deposito doganale proposto a Qianhai con utenti e commercianti di metalli preziosi nei Paesi della Fascia e Via“.

Deposito d’oro da 1500 tonnellate nella zona di libero scambio
Qianhai fa parte della zona di libero scambio di Shenzhen e Hong Kong. Il deposito doganale, secondo l’articolo, potrà immagazzinare 1500 tonnellate di oro. I servizi di regolamento di custodia e fisico inizierà probabilmente nei prossimi mesi. La posizione di Trump sulla politica commerciale spinge la Cina ad estenderne il commercio ben oltre il petrolio. Finora queste cifre equivalgono alla soppressione dei dazi in nome della “sicurezza nazionale” (che ironia). L’affermazione è che economia ed esercito statunitensi non possono essere sicuri se il Paese non produce abbastanza acciaio. E così il presidente Trump annunciava dazi che colpiranno alleati affidabili mentre avrà impatto assai minore sulla Cina, le cui pratiche commerciali Trump ha ripetutamente lamentato. I dazi furono quindi modificati esentando Canada e Messico, almeno per ora, ma si applicano ancora a molti altri alleati degli Stati Uniti.

Leggi tutto: https://aurorasito.wordpress.com/2018/03/27/la-svolta-globale-della-cina-yuan-oro-e-avvertimenti/

Ungheria

Il 15 marzo, l’Ungheria celebra la rivoluzione per l’indipendenza del 1848-1849. Questo è un giorno eminentemente politico per gli ungheresi, e tradizionalmente ogni partito organizza un evento con i suoi sostenitori. I vari partiti di opposizione hanno raccolto circa un migliaio di partecipanti. Ma l’evento del giorno era innegabilmente la “marcia della pace”. Fidesz, il partito di Viktor Orbán, ha organizzato tra il 2012 e il 2014 queste “marce per la pace” per dimostrare la sua popolarità e la sua capacità di mobilitare fuori dall’ordinario. Il primo passo è stato dimostrare all’Unione europea il sostegno di cui Viktor Orbán ha goduto in Ungheria, anche se ha dovuto negoziare sulla sua nuova costituzione. Ma dal 2014 non era stata organizzata alcuna marcia per la pace. E quest’anno è stato un record: circa 500.000 persone, nonostante la pioggia, hanno marciato a Budapest per esprimere il loro sostegno a Viktor Orbán. La vera dimostrazione di forza per gli indecisi, per l’opposizione e all’estero, la marcia dei sostenitori di Viktor Orbán – raccolti sul richiamo del polemista e presentatore Zsolt Bayer – si sono conclusi sul luogo del Parlamento in cui il Il primo ministro ungherese ha tenuto il suo discorso il 15 marzo. Prima dell’inizio della marcia, Zsolt Bayer, personaggio storico di Fidesz e televisione ungherese, ha affermato che i partecipanti sono coloro che sanno ancora cosa significano ” Dio, la nazione e la patria ,quelli che sannocosasono la famiglia e ciò che ibambinirappresentano e che riconoscono due sessi, la donna e l’uomo

estratto da https://www.controinformazione.info/lungheria-si-mobilita-per-la-salvaguardia-delle-nazioni-europee/

Giordania

A Bruxelles, al-Azraq è un “nome familiare”, in quanto utilizzata dalla NATO e dalle forze aeree dell’UE, concretamente dai belgi (2014-2015), e ora da olandesi e tedeschi. Le forze aeree statunitensi vi operano da anni. La base è situata in un’altra parte oscura del Medio Oriente; economicamente depressa con innumerevoli piccole imprese e fabbriche chiuse e arrugginite e la quasi completamente prosciugata Azraq Wetlands Reserve un’oasi un tempo rinomata come ‘santuario degli uccelli migratori’. L’oasi si estendeva quasi al confine con l’Arabia Saudita. Ora la maggior parte del territorio della “riserva” è secca. In ogni caso, non ci sarebbero volati molti uccelli perché si sarebbero trovati di fronte al rombo assordante dei motori degli aerei e agli impianti di collaudo dei motori, non diversamente da quelli di cui fui testimone ad Okinawa. Chi viene in questo angolo della Giordania è per lo più un “avventuroso” turista occidentale, pronto a “esplorare” il vicino castello un tempo usato come base dal glorioso agente segreto inglese Thomas Edward Lawrence, noto come “Lawrence of Arabia”. Vengono anche a visitare “riserve naturali” e diversi siti archeologici. La signora Alia, che lavora nel centro artigianale di al-Azraq, confessa: “A volte siamo molto spaventati… Perché il nostro posto è proprio sul perimetro della base aerea, pur essendo un hotel per turisti stranieri. Ci sono molte ragioni per cui qualcuno potrebbe pensare di attaccare questo posto…” Ma questa è davvero una locanda “turistica”, chiedo, dopo aver osservato numerosi hangar e aerei militari sul parcheggio, dietro la struttura. Esita per qualche istante, ma poi risponde: “In origine era una eco-hotel, ma ora le prenotazioni provengono principalmente dalla base. Ci sono statunitensi e tedeschi; mentre un paio d’anni fa c’erano i belgi. Gli ufficiali a volte vivono qui per un mese intero, sa: addestramento, riunioni … Lavorano nella base, ma dormono da noi“. C’è un cartello “US Aid” avvitato sul muro all’ingresso della locanda. E vi sono innumerevoli foto sin bianco e nero della zona, che decorano le pareti, così come la statuetta di un soldato con la vecchia uniforme coloniale inglese. La città di Azraq è polverosa e semivuota. È circondata da un deserto brutalmente secco. Ci sono innumerevoli rovine di case e servizi sulla strada principale. Alcuni vivono nella miseria, in tende lacere. Mi fermai vicino a un gruppo di dimore umili. Una vecchia dal vestito nero mi agitava un bastone con aria minacciosa. Un uomo anziano si avvicinò all’auto tendendo la mano verso di me. Era rugoso e duro. L’ho scosso. Non avevo idea di quanti anni avesse; molto probabilmente non troppo vecchio, ma sembrava stanco e avvilito. “È questa la base”, agitai la mano astrattamente verso i muri: “Aiuta la città, almeno un po’?” L’uomo mi fissò per diversi secondi. Poi borbottò: “Aiutare? Sì, forse… Forse no… Non lo so davvero“. Il mio autista e interprete, un ex-commerciati diversi anni fa, prima di affrontare momenti difficili commentava, mentre ci stavamo lentamente allontanando da al-Azraq: “È assai brutto qui! La situazione è tragica. West Amman e questo, come se esistessero due universi diversi su un solo Paese. Un tale contrasto! Beh, può vederlo da solo“. Gli chiesi se ai giordani sarebbe dispiaciuta l’idea di espandere questa micidiale base aerea nel loro Paese? Dopo tutto, l’unico scopo è brutalizzare nazioni arabe, uccidere innumerevoli esseri umani inermi. Si strinse nelle spalle: “Non gli importa. La maggior parte delle persone qui non pensa a queste cose. Vogliono poter mangiare, cavarsela. Il governo li ha convinti che collaborare con l’occidente potrebbe migliorarne il tenore di vita. È tutto ciò a cui pensano. I nostri capi, del Golfo e qui, sono corrotti e la gente umiliata; non vedono alcun futuro luminoso, nessuna via d’uscita dalla situazione attuale…” Circa 70 chilometri verso la capitale, Amman, rallentiamo, mentre superiamo diversi checkpoint e una recinzione di cemento, che assomiglia a quella costruiti dagli occidentali in Afghanistan. L’autista mi dice: “Guardi, questo è dove hanno addestrato la cosiddetta opposizione siriana, per anni“. Di ritorno ad Amman, incontrai diversi amici, principalmente stranieri, che vi lavorano. “Esistono numerose basi militari occidentali in Giordania“, mi disse uno di loro. “Questo argomento non è discusso qui, apertamente. Giusto o sbagliato, non importa. A nessuno importa. La spina dorsale di questa parte del mondo è già stata spezzata“.
Al-Azraq non è solo una grande base aerea. È anche sinonimo di uno dei maggiori campi profughi in Medio Oriente. È un nuovo campo, costruito nel deserto per ospitare principalmente profughi siriani. Nel 2016 e 2017 vi lavorai, o più precisamente, ci provai prima di essere cacciato dalle locali aggressive forze di sicurezza. Crisi dei rifugiati, basi militari occidentali, aiuti esteri e turismo, queste sono le principali fonti di reddito del Regno di Giordania. In modo sinistro e surreale, tutto qui si segue un cerchio, “ha un senso perverso“: “interi Paesi vengono appiattiti dalle basi militari, che la Giordania è disposta ad ospitare sul proprio territorio; naturalmente, a una grossa tariffa. Di conseguenza, centinaia di migliaia di profughi disperati continueranno a riversarsi in questa “isola di stabilità in Medio Oriente”, portando decine, centinaia di milioni di dollari in aiuti stranieri nelle casse di Amman“. Nessuna industria, produzione o duro lavoro è necessario. Questo accordo potrebbe essere definito come “immorale”? ‘Ed è veramente importante?’ Mi fu detto in diverse occasioni, durante questa e le precedenti visite al Regno di Giordania, che “a nessuno importa”. Quasi tutte le ideologie, insieme a spirito di solidarietà ed internazionalismo, sono già state distrutte da programmi e campagne di indottrinamento sponsorizzate dall’occidente camuffati da “aiuti”. Dico “quasi”, perché ora appare un barlume di speranza. Non tutto è perduto, ancora. Un Paese vicino, la Siria, resiste combattendo e perdendo centinaia di migliaia di persone, ma è quasi riuscito a sconfiggere il brutale intervento occidentale. Questo potrebbe essere il momento più importante nella storia araba moderna. I popoli del Medio Oriente guardano. I giordani guardano. I turchi guardano. Chiaramente, gli imperialisti possono essere sconfitti. Chiaramente, il collaborazionismo non è l’unico modo per sopravvivere. L’enorme base aerea della NATO passa lentamente dalla Turchia alla Giordania. L’occidente ha già perso la Siria. Potrebbe anche perdere la Turchia. Chissà: un giorno anche la Giordania potrebbe svegliarsi. Alcuni dicono: l’effetto “Domino è iniziato”.
Andre Vltchek

estratto da https://aurorasito.wordpress.com/2018/03/13/la-nato-passa-dalla-turchia-alla-giordania/

Bad_Godesberg

Nessuno, dico nessuno,  rievoca “Bad Godesberg”. Località tedesca dove  già nel lontano 1959  la socialdemocrazia abiurava a ogni idea di socialismo abbracciando senza il minimo sostrato scientifico il liberal liberismo, come con efficacia plastica sottende il cuore del documento che immortala quella circostanza: “mercato ovunque sia possibile e Stato ove dovesse essere necessario”. Ciò fissando il principio poi largamente seguito anche dalle destre in occasione delle mai cessate cicliche crisi economiche ( e segnatamente in Inghilterra E USA –paradisi paradigmatici del capitalismo –  dopo  la crisi scoppiata nel 2008 di intervenire con la mano pubblica a garanzia della privatizzazione dei profitti in congiunture  favorevoli e di socializzazione delle perdite in epoca di “vacche magre”)!

 

Il bluff del richiamo al “socialismo” nel PCI fino alla caduta del “Muro” e al conseguente sgretolarsi dell’impero sovietico, si è  smascherato  immediatamente dopo tali avvenimenti: i (falsi) sedicenti “comunisti” si son subito allineati alla peggior socialdemocrazia, liberandosi persino di ogni contaminazione nel nome e nei simboli abbracciando l’”americanismo” più sfacciato – peraltro covato, neanche con maestria, dai “miglioristi” in seno al PCI con a capo Amendola e il suo pupillo Napolitano. Di cui l’esito in veste di Partito Democratico è il segno più rivelatore.

 

Renzi e il suo esito “gentiloniano” non sono che la palmare deriva di quanto storicamente è avvenuto,  costituendo il renzismo “la malattia senile   – in forma di demenza attiva”-  del fallimento esplicito dei partiti socialdemocratici sancito apertis verbis a Bad Godesberg nell’ormai lontano 1959.

http://www.lafinanzasulweb.it/2018/cuando-calenda-el-sol/

Elogio dei dazi

Ci sono tracce dell’importanza della dogana pubblica e della riscossione di tasse sin da 2.500 anni fa, allorché le merci in entrata nel porto greco del Pireo erano sottoposte a una gabella del 2 per cento sul valore: i primi dazi all’importazione, chiamatipentekostès. Fu Roma a inventare la parola datium, ciò che è dato, per definire l’imposta di transito su merci e persone. Lo stesso termine dogana ha una storia antichissima. Proviene dal turcodiwan, che designava sia il luogo del Bosforo ove venivano riscosse le tasse sulle merci in transito, sia il mobile (divano) su cui sedeva il dignitario incaricato. La prima tariffa doganale organica italiana, un elenco di prodotti provvisti di una denominazione e descrizione a fini fiscali è del XVIII secolo, per il settore tessile, protagonista della prima rivoluzione industriale in Inghilterra, seguita alle invenzioni di macchinari come il filatoio (1770) e il telaio meccanico (1786).

Oggi è adottata a livello mondiale una tariffa doganale di migliaia di pagine, organizzata in capitoli e “voci doganali”, che individua ogni manufatto o prodotto della natura. La tariffa dell’Unione Europea con l’indicazione del trattamento tributario all’importazione e all’esportazione di ciascuna tipologia merceologica è unica per i 28 Stati, area di libero scambio non gravata da dazi interni titolare di una politica doganale comune verso i Paesi terzi.

I dazi, insomma, sono una cosa molto seria, tant’è che la reazione isterica a Trump del partito di Davos, il circolo esclusivo e dittatoriale dei globalisti interessati al mercato libero planetario, è stata davvero forte. Si sono ascoltate piccate lezioni di libero scambio da un gigante, la Cina, formalmente comunista che non incoraggia certo libere importazioni nel suo immenso mercato interno. Non è mancata l’intemerata di Angela Merkel, uno strappo rabbioso dopo tre quarti di secolo di sudditanza dei vinti. Il fatto è che la Germania, in tandem con la Cina, è la nazione esportatrice per eccellenza, e vanta un avanzo commerciale annuo di ben 287 miliardi di euro, il che, tra l’altro, è in contrasto con le regole europee. Chi comanda, si sa, fa quello che gli conviene. Altrettanto seccate le reazioni di parte francese ed italiana. I conversi sono i più accaniti: gli ex comunisti riciclati in acerrimi difensori del libero mercato e dell’abolizione dei dazi farebbero tenerezza se non lavorassero contro gli interessi del loro stesso elettorato.

Cerchiamo allora di fare chiarezza, a partire dalla circostanza che, piaccia o no, la politica economica di Trump ha due obiettivi in linea con le promesse elettorali che lo hanno portato alla Casa Bianca. Il primo, da realizzare attraverso imponenti sgravi fiscali, è reindustrializzare l’America, restituendole quel ruolo di regina della manifattura che ha perduto. Non dimentichiamo che negli anni successivi alla vittoria del 1945 l’economia Usa rappresentava il 50 per cento degli scambi mondiali e tale quota si è ridotta della metà.

L’altro scopo è quello di contenere l’avanzata, sinora irresistibile, del Dragone di Pechino, detentore di una larga fetta dello sterminato debito pubblico americano. I dazi posti rappresentano una tipica misura di politica commerciale nei confronti dei competitori diretti dei comparti industriali che si sceglie di rafforzare. Le lagne dei finti o veri liberoscambisti lasciano dunque il tempo che trovano. Altra cosa è prendere atto che una nazione tanto potente, paladina del liberismo e del mercato padrone, allorché si vede minacciata negli interessi, reagisce esattamente come ogni potenza ha sempre fatto nel corso della storia, proteggendo se stessa, erigendo barriere tariffarie, difendendo il mercato interno.

Il protezionismo, in definitiva, è la condizione normale della politica commerciale di tutti gli Stati. La situazione più desiderabile è vendere più di quanto si acquista e il termine mercantilismo rappresenta da secoli tale modello, di cui fu espressione la Francia del grande ministro Colbert, per oltre vent’anni al servizio di Luigi XIV, il Re Sole. La ricetta è apparentemente semplice: poiché la ricchezza della Stato è l’accumulo monetario, è essenziale acquisire valuta attraverso l’esportazione limitando l’esborso per importazione. Non deve essere una sciocchezza, se Germania e Cina, i grandi creditori commerciali, sono tanto nervosi per i dazi americani.

Non dimentichiamo l’importanza della leva valutaria, che ha alimentato il boom italiano negli anni del dopoguerra sino alla gabbia dell’euro. La svalutazione competitiva della lira metteva il vento in poppa alle nostre esportazioni, insieme con la geniale capacità di lavoro e di problem solving (ah, la neo lingua dei sapienti anglofoni!), alimentando una delle stagioni migliori della nostra storia. Oggi tocca agli Usa, accusati non senza fondamento di manipolare al ribasso il valore del dollaro e alla Cina, che mantiene artificiosamente ai minimi lo yuan. Con la moneta unica europea, al contrario, la Germania ha realizzato con altri mezzi la svalutazione del vecchio, fortissimo marco e si sta mangiando le economie di chi non ha capito il gioco, in primis l’Italia.

Del resto, la politica tariffaria nostra si è lungamente basata sulla utilizzazione selettiva della leva daziaria. Da noi, i paesi del mondo erano divisi in tre zone, A, B, C. A quest’ultima apparteneva il solo Giappone, che per decenni fu nostro concorrente diretto, nei confronti del quale erano posti dazi elevatissimi e divieti di importazione, il più severo dei quali ha tenuto la Fiat al riparo della concorrenza nipponica nel settore automobilistico. Adesso Marchionne ha voltato le spalle all’Italia e si giova dei vantaggi della politica fiscale e commerciale degli Usa con la Fca a Detroit. La zona B comprendeva gli Stati del blocco comunista, nei confronti dei quali vigeva una politica di chiusura con eccezioni, rappresentata dal regime delle autorizzazioni ministeriali e degli interessi della grande industria. La Fiat costruì un grande stabilimento in Unione Sovietica, con la fondazione della città chiamata Togliattigrad in onore del leader comunista italiano.

La zona A era a sua volta divisa in tre gruppi. Il primo comprendeva il Mercato Comune Europeo dell’epoca, il secondo il resto d’Europa e i paesi più ricchi come gli Usa, mentre il terzo riuniva Africa e Sudamerica nel gruppone dei PVS, Paesi in Via di Sviluppo, con trattamento doganale unilaterale di favore, sul modello della clausola di nazione più favorita ben noto al diritto internazionale. I livelli dei dazi erano modulati per sostenere il nostro ruolo di economia di trasformazione, evitando dazi sulle materie prime, difendendo nel contempo con imposte elevate in entrata quei settori industriali che sarebbero stati danneggiati da massicce importazioni.

Contemporaneamente, veniva sostenuta l’esportazione, abolendo divieti e dazi in uscita, nonché fiscalizzando il cosiddetto drawback, ovvero la restituzione alle imprese esportatrici dei dazi sopportati all’importazione di prodotti e materiali riesportati o lavorati. Venne trattata come un’opportunità anche la cronica lentezza dei rimborsi IVA attraverso il meccanismo del plafond, che permetteva agli esportatori l’acquisto di beni di estera provenienza senza imposta a sconto dei versamenti IVA.

I residui divieti all’esportazione vennero – e restano- mantenuti per motivi politici. Non si vendono armi, sistemi informatici o prodotti chimici a Stati con cui siamo in cattivi rapporti; in più c’è il sistema dell’embargo e delle autorizzazioni ministeriali. Oggi assistiamo a gravi perdite per le imprese italiane che lavorano sul mercato russo ed è più costoso l’approvvigionamento energetico, il che dimostra quanto sia importante la sovranità nazionale. Ben difficilmente un’Italia indipendente avrebbe elevato sanzioni nei confronti della Russia, da cui non ci dividono né controversie territoriali, né contese economiche o insanabili contrasti politici, fornitrice di energia a buon prezzo, acquirente di prodotti di punta della nostra economia. Sappiamo chi ringraziare.

I dazi assomigliano alle chiuse di un fiume. A seconda delle necessità, le paratie possono funzionare a regimi diversi: passa più o meno acqua in base alle scelte delle autorità o alla disponibilità della risorsa idrica. Ciò che non si può fare è chiudere completamente il flusso; in tutti i tempi e sotto ogni cielo, l’uomo ha commerciato con i vicini e anche con i lontani. La dogana, sempre, si è identificata con un confine, una linea di divisione, un luogo di decisione, dentro o fuori. Oggi è di moda, in ossequio al liberismo economico unito al suo doppio, l’universalismo culturale, la stucchevole espressione “costruire ponti, abbattere muri “. Noi affermiamo che si tratta di una sciocchezza travestita da virtuoso senso comune. Gli uomini hanno sempre gettato ponti, ma nel momento stesso in cui univano due rive, ne riconoscevano l’esistenza distinta, prendevano atto delle distanze e delle convergenze di chi viveva ai lati.

Una frontiera riconosciuta e rispettata, dalla quale sorgono doveri di identificazione e limitazioni commerciali di cui i dazi sono il simbolo, è un luogo di conoscenza, cinghia di trasmissione, presa d’atto di differenze che vengono insieme riconosciute e neutralizzate dalla presenza di una sbarra mobile, che si apre, ma che può anche chiudersi, la linea doganale, il confine. La filologia mente di rado: confine deriva da cum –finis, avere in comune un limite. E’ ovvio che ogni confine debba aprirsi, ma a determinate condizioni, osservati criteri stabiliti. L’economia, il commercio sono parte della vita degli uomini, i quali talvolta alzano muri o barriere per proteggere se stessi. Aprire indiscriminatamente, abolire il limes, il limite, la barriera, espone a rischi incalcolabili. Non a caso esistono opere dell’ingegneria come la Grande Muraglia cinese e il Vallo di Adriano.

La moneta euro, al riguardo, presenta una simbologia che non lascia dubbi: nessuna immagine di grandi uomini, re o regine, nessuna iconografia legata a opere d’arte riconoscibili del genio europeo, solo stilizzazioni di ponti e finestre. Nessun limes, nessuna linea di confine, basta dogane. Tutto e tutti possono entrare e uscire senza controllo e in assenza di giudizio politico, anzi il pre-giudizio è che non debbano esistere limiti. Follia culturale che diventa impotenza pratica e libero dispiegarsi delle forze distruttrici. John Keynes li chiamò spiriti animali del capitalismo e Joseph Schumpeter, più immaginifico, distruzione creatrice.

Roberto Pecchioli

in https://www.maurizioblondet.it/elogio-dei-dazi/

C’è un Old Nichols nel nostro futuro

Se non viviamo ancora nelle topaie non è certo per la volontà delle elites del denaro, ma perché ancora conserviamo qualcosa delle conquiste fatte nel secolo precedente e in qualche modo assestatesi nel trentennio successivo alla guerra mondiale nel quale l’eccezionale sviluppo fu favorito da tasse molto basse per i ceti popolari e altissime per i ricchi e gli abbienti: in tutto l’occidente le aliquote massime arrivavano a superare il 90 per cento, arrivando al 94% in Usa: con quei soldi si è costruito lo stato sociale e sono state possibili le tutele sul lavoro e sulla salute.

il Simplicissimus

images (5)Alla fine dell’800, in definitiva meno di un secolo e mezzo fa, esisteva a Londra un bassofondo chiamato Old Nichol nel quale la gente si accatastava in cantine senza finestre, senza riscaldamento, con il soffitto alto un metro e mezzo con la possibilità di avere un solo letto per intere famiglie e anche per topi e parassiti di ogni genere, tanto far apparire la topaia Gorbeau come un paradiso. Tuttavia se confrontiamo gli affitti pagati da questi disgraziati per metro cubo, ci accorgiamo che essi erano quattro volte superiori rispetto a quelli delle case più eleganti del West End. Si potrebbero fare mille esempi, in ciascun Paese d’Europa, ma questo è quello per cui si sono conservate documentazioni esatte e si può anche vedere che i percettori degli affitti erano spesso membri del Parlamento, pari del regno, grandi ecclesiastici.

A quei tempi però c’erano anche due forze che si opponevano a…

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