Provocazioni

Il 27 marzo, parlando alla Casa Bianca, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha detto che la Russia deve uscire dal Venezuela e ha avvertito che “tutte le opzioni sono aperte” per raggiungere questo obiettivo.

Circa 100 truppe russe sono atterrate a Caracas il 23 marzo, secondo i termini di un trattato di cooperazione del 2001 tra i due stati. La mossa ha causato un’ondata di voci nei media mainstream. La maggior parte riguarda le forze speciali russe e un possibile coinvolgimento militare russo in caso di invasione statunitense.

Il vicepresidente americano Mike Pence ha descritto il dispiegamento come una “provocazione inutile”. Pence ha anche invitato Mosca a ritirare il suo sostegno al presidente venezuelano Maduro e “stare con Juan Guaido”, il presidente ad interim proclamato a Washington dal paese.

Il consigliere per la sicurezza di Trump John Bolton è stato ancora più ostile nelle sue osservazioni.

John Bolton minaccia il Venezuela

John Bolton

@AmbJohnBolton
The United States will not tolerate hostile foreign military powers meddling with the Western Hemisphere’s shared goals of democracy, security, and the rule of law. The Venezuelan military must stand with the people of Venezuela.

A sua volta, il ministero degli Esteri russo ha dichiarato che lo spiegamento è stato effettuato “in stretta conformità con la costituzione di quel paese e nel pieno rispetto delle sue norme legali”.

Questa situazione è un altro esempio di come gli Stati Uniti si stiano intromettendo apertamente negli affari interni venezuelani, sostenendo che questa è una mossa per difendere la democrazia.
Nota: Alcuni commentatori russi si sono chiesti in base a quale principio gli USA pretendono di mantenere lontana la Russia dal continente Latino Americano mentre allo stesso tempo inviano le loro truppe, attrezzature militari e armamenti in Ucraina, nei paesi Balici, in Georgia e nelle zone limitrofe dei confini della Federazione Russa.

Fonte: South Front

Traduzione e nota: Luciano Lago

https://www.controinformazione.info/trump-la-russia-deve-uscire-dal-venezuela-tutte-le-opzioni-sono-aperte/

 

Kosovo

Fonte: Cultura e identità

autoproclamatosi indipendente dalla Serbia il 17 febbraio 2008

Molti, in Occidente, fanno fatica a comprendere le ragioni dell’attaccamento serbo al Kosovo. In un’ottica geopolitica, o anche solo politica, la questione balcanica resta sconosciuta alle élite culturali e politiche che sostengono l’indipendenza kosovara. Manca la volontà di capire le ragioni profonde – spirituali, mitiche e culturali che per secoli hanno spinto la nazione serba a includere quella regione nel suo Stato e nella sua Chiesa.

A due decenni dal bombardamento della Serbia, una tragedia che ha lasciato in eredità una profonda incomprensione tra il popolo serbo e l’Europa, gli intellettuali occidentali ancora si interrogano, preoccupati, sui motivi dell’irrazionale resistenza di una piccola nazione all’usurpazione di una piccolo porzione del suo territorio. Non mi riferisco all’Italia, che già vent’anni fa aveva messo in guardia dalle conseguenze legate a una simile scelta. In particolare la Lega, unico partito europeo filo-serbo, seppe prevedere il pericolo rappresentato da un’invasione islamica che avrebbe coinvolto innanzitutto le coste italiane una volta destabilizzata la penisola balcanica.

Ma perché i Serbi si ostinano a non accettare la perdita del Kosovo? Molti ritengono che la ragione vada cercata nel fatto che proprio lì ebbe origine il primo stato serbo nel Medioevo, dopo l’occupazione bizantina; questo è vero: per i serbi il Kosovo è stato la culla non soltanto dell’identità politica serba, ma anche di quella idea di libertà senza la quale nessun popolo può darsi una dimensione storica. Altri pensano che il vero motivo sia legato alla presenza, nello spazio kosovaro, di ben 1300 tra templi e monasteri cristiani edificati nel corso dei secoli. Altri, infine, attribuiscono l’ostinazione serba a una questione di principio, ovvero alla di vedere rispettate la sovranità e la Costituzione di Belgrado, nonché il diritto internazionale.

Tutte queste ragioni nel loro insieme giustificano la volontà di difendere a oltranza una regione considerata il centro originario di una Nazione: eppure, abbiamo molti esempi nel passato che ci ricordano che, pur di sopravvivere, altri popoli hanno accettato di rinunciare a porzioni del loro territorio, sebbene li considerassero sacri per il loro valore storico. Il caso in questione, però, presenta una sua peculiarità: durante i cinque secoli di occupazione turca il popolo serbo, disperso, non smise mai di sognare di poter un giorno tornare ad abitare in Kosovo e quando nel XIX secolo fu ripristinato uno Stato nazionale indipendente un po’ più a nord, la gente continuò a desiderare di poter un giorno far ritorno nella patria originaria. Ancora vent’anni fa, al termine dei bombardamenti, allorchè le grandi potenze promisero un certo grado di autonomia alla regione del Kosovo, il popolo serbo decise di opporsi  e resistere ad ogni costo alla sua perdita. Una forza più potente delle bombe e delle esplosioni fece sentire in quel momento la sua voce, una voce proveniente dalle profondità del tempo, e che affermava che la rinuncia a quel luogo da cui aveva avuto origine, avrebbe significato l’annientamento dell’identità del popolo serbo e della sua storia, oltre al fallimento di quella missione che dava senso alla sua esistenza.

630 anni fa, in Kosovo, ebbe luogo una grande battaglia tra l’esercito cristiano serbo e quello islamico turco, dall’esito incerto e in cui entrambi i sovrani furono uccisi. Prima della battaglia i turchi fecero al Re un’offerta: accetta l’occupazione e il nostro ordine islamico, paga il tributo al Sultano e noi in cambio ti lasceremo in vita e rispetteremo la tua autorità sul popolo e i tuoi beni.

Dalla decisione del sovrano serbo Lazar non dipese in quel momento soltanto il futuro del popolo serbo, ma dell’Europa intera. E fu così che in quel momento avvenne il miracolo e la volontà di Dio si incarnò nel destino della nazione serba. Ai pragmatici calcoli politici, Lazar preferì tener fede a quei valori che plasmano le genti, ne modellano la storia e ne determinano il destino, qualunque esso sia. Rifiutò l’offerta turca pur di non pagare la conservazione delle sue ricchezze e del suo potere al prezzo del proprio onore, della dignità e della libertà nazionale, perché questo avrebbe significato accettare l’umiliazione di sottomettersi allo straniero e alla sua religione. Per i turchi, infatti, quella in atto era una guerra santa, combattuta sotto la bandiera dell’Islam e per Lazar, arrendersi, avrebbe significato tradire il suo popolo, la sua storia, la sua famiglia e ciò che rappresentavano. Avrebbe significato tradire Cristo.

Incurante delle conseguenze, Lazar scelse di non tradire, consapevole della missione storica affidata ai serbi: difendere non soltanto la propria indipendenza, ma la libertà della più ampia comunità di genti a cui appartenevano, quella dei popoli europei. Secondo il poema popolare che ne canta le gesta, Lazro riassunse la sua decisione in una sola frase: “Quello terrestre è un piccolo regno, quello celeste dura in eterno”.

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C’era un europeo in coma

Guarda caso l’ostilità aperta alla Cina comincia proprio in questo periodo in cui si iniziano a imporre vincoli ambientali alle imprese straniere sulla base di tre principi che sono esattamente il contrario delle dottrine occidentali: 1) che tutte le risorse naturali appartengono allo Stato; 2) che lo Stato rappresenta interessi nazionali superiori agli interessi privati; 3) che opera a lungo termine, non può essere sottomesso “al feticismo del tasso di crescita” ed è dunque l’unica entità che può portare a un riequilibro ambientale che richiede tempi medio lunghi. Ed ecco le ragioni per cui le elite atlantiche si limitano a fare ambientalismo -spettacolo e nutrono sospetti sulla Cina: non è la protezione dell’ambiente che li spaventa, ma l’evidenza che essa non può essere efficacemente realizzata in un contesto esclusivamente privatistico che ha al proprio centro il profitto. Ecco cos’è davvero la “minaccia cinese”. Si alla fine i nodi vengono pettine e la soluzione occidentale non è quella di sciogliere i nodi, ma di eliminare i pettini.

il Simplicissimus

solar_farm_floating_china_power_plant_sungrow_10I nodi vengono al pettine e per quanto riguarda la fragile e insieme tracotante Europa proprio in queste settimane le oligarchie al potere dovranno decidere quali rapporti avere con la Cina: se obbedire agli ordini di Washington e ai suoi diktat o sviluppare i rapporti con Pechino che già oggi in via formale arrivano al 15% dell’interscambio diretto del continente, dunque superiore ormai a quello  con gli Usa, ma in termini reali, cioè attraverso altri Paesi, è parecchio più alto.  Domani arriva in Italia il presidente cinese Xi Jinping che poi andrà anche in Francia, oggi si è aperto il Consiglio Europeo dedicato alla questione cinese e il 9 aprile ci sarà il vertice annuale Cina-UE che si terrà a Bruxelles il 9 aprile, co-presieduto dal premier cinese Li Keqiang. Insomma molta carne al fuoco mentre a Washington  “invita” e  minaccia, vuole le barricate contro la Huawei e contro l’ingresso…

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Una nuova “Via della Seta” per il futuro dell’Italia

di Ernesto Ferrante – 13/03/2019

Una nuova “Via della Seta” per il futuro dell’Italia

Fonte: l’Opinione Pubblica

L’Italia non può e non deve perdere la straordinaria opportunità della nuova Via della Seta. La firma dell’accordo con la Cina, darebbe al nostro Paese la possibilità di muoversi da attore autorevole sullo scacchiere multipolare, consegnando agli archivi l’appiattimento sulle posizioni dell’unipolarismo statunitense che ne hanno caratterizzato la politica estera dal dopoguerra in poi, al netto dei circoscritti e limitati sussulti di Mattei, Moro e Craxi.

Il memorandum con la potenza asiatica non prevede obblighi, ma principi condivisi per l’organizzazione di forme specifiche di cooperazione economica. L’esatto contrario di quel pericolo di “colonizzazione” che gli atlantisti di sangue, di ideologia o confessione paventano.

E’ sfacciato, inaccettabile ed immorale che a vestire i panni degli amici premurosi siano i cantori delle gesta di Washington, Bruxelles, Parigi e Londra, fonti di sventure e disastri economici e geopolitici per l’Italia. Se gli “alleati” sono quelli delle 113 basi militari sul nostro suolo, del Britannia, del pareggio di bilancio nella Costituzione e della sciagura libica, meglio starne alla larga.

Nell’esecutivo gialloverde non mancano gli sbarratori delle porte del treno della Via della Seta, anche se fortunatamente i sottosegretari allo Sviluppo Economico Geraci e ai Trasporti Rixi (entrambi leghisti) e diversi esponenti di peso del M5S (il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano in primis), riescono a far sentire la propria voce con argomentazioni serie, suffragate da dati.

Il negoziato è in dirittura d’arrivo e potrebbe essere firmato durante la visita di Stato del presidente cinese Xi Jinping a Roma (prevista per il 22 e 23 marzo) o a fine aprile, tra il 25 e il 27, quando a Pechino si svolgerà il secondo Forum sulla “Belt and Road Initiative”.

Il nostro sarebbe il primo Paese del G7 a beneficiare dei vantaggi strategici ed economici di quella cintura economica lungo l’antica Via della Seta che aprirà un mercato di tre miliardi di consumatori. “Yi Dai Yi Lu”, in mandarino.

“Una Cintura Una Strada” nella nostra lingua. Una “cintura” di strade, ferrovie per il trasporto delle merci, gasdotti e oleodotti, linee di telecomunicazioni che partendo dalla Cina attraverseranno l’Asia centrale, la Russia, il Medio Oriente per arrivare in Europa. Una “strada” marittima che comincia dai grandi porti di Shanghai e Canton, fa rotta lungo il Mar Cinese meridionale e l’Oceano Indiano, fa tappa in Kenya, risale il Mar Rosso, arriva nel Mediterraneo con uno scalo al Pireo e termina a Venezia.

Sessantasette Paesi hanno già sottoscritto la Belt and road Initiative. Sono già 13 i Paesi dell’Ue che hanno siglato un memorandum di intesa con la Cina. Si tratta di Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Grecia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Portogallo, Slovacchia e Slovenia. La Cina è il principale partner commerciale di 126 nazioni; gli Stati Uniti di 56.

A chi pende ancora dalle labbra di tromboni da salotti buoni come il politologo Luttwak, secondo il quale “la scelta di stare con la Cina dimostrerebbe che l’Italia si rivela essere ancora una volta provinciale e fuori dai giochi”, è appena il caso di snocciolare qualche numeretto sonante: i progetti cinesi prevedono investimenti per 900 miliardi di dollari nei prossimi 5-10 anni; 502 miliardi in 62 Paesi entro il 2021, secondo i calcoli degli analisti di Credit Suisse.

Il premier Conte, che pare aver colto l’importanza della nuova Via della Seta, faccia il Marco Polo e dia all’Italia la possibilità di esplorare un mondo sconosciuto che si chiama sovranità piena, con la libera scelta delle migliori opzioni strategiche sul piano economico e politico. Nell’esclusivo interesse del popolo italiano.

https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=61727

 

L’Iran prepara la sua Marina

Stretto di Hormuz

L’Iran presenta un suo nuovo sottomarino di produzione nazionale.
La scorsa domenica l’Iran ha battezzato un nuovo sottomarino di produzione nazionale, classe Fateh (conquistatore), armato di missili cruise.

“Il Fateh è, nella sua interezza, un proprio disegno sottomarino, sviluppato da esperti del Ministero della Difesa e dotate delle più moderne tecnologie nel mondo”, ha sottolineato il ministro della Difesa iraniano generale di brigata Amir Hatami, nel corso di una cerimonia tenutasi nella città portuale di Bandar Abás (sud dell’Iran).

Quello che distingue questo sommergibile dai suoi predecessori, ha sottolineato il comando militare persiano, è che si trova dotato di sistema di missile cruise antinave, oltre a siluri e mine navali.

Il Fateh è considerato uno dei più potenti sottomarini della Marina iraniana, con 48 metri di lunghezza e quattro nella trave. È in grado di navigare per cinque settimane a una profondità di circa 200 metri.

Questo sottomarino da 600 tonnellate (medio-pesante), come ha sottolineato il ministro della Difesa iraniano, è anche dotato di una varietà di tecnologie avanzate, tra cui sistemi sonar, sistemi di propulsione elettrica, sistemi di guerra elettronica e un sistema di comunicazione integrato e sicuro. .

Il generale Hatami ha assicurato che questo nuovo sommergibile aumenterà la “capacità deterrente” del paese , rafforzando la flotta meridionale della Forza navale dell’esercito iraniano, la cui missione è di garantire la sicurezza delle acque territoriali dell’Iran nel Mare di Oman e nello strategico Golfo Persico .
Secondo il militare iraniano di alto rango, l’incorporazione di questo sommergibile avanzato alla marina iraniana trasmette un messaggio importante a tutti i paesi che si affacciano sul Golfo Persico.

Le potenze straniere non sono le benvenute nel Golfo Persico

“Il messaggio è che la regione (del Golfo Persico) è sufficientemente capace di garantire la propria sicurezza senza alcun bisogno di presenza delle potenze espansionistiche fuori dalla loro zona”, ha detto.

Il ministro della difesa persiano ha anche esortato i poteri egemonici a smettere di intromettersi negli affari interni dei paesi dell’Asia occidentale e di rispettare il diritto all’autodeterminazione delle nazioni della regione.

La Repubblica Islamica ha già dichiarato che la Marina iraniana monitora da vicino tutti i movimenti delle navi da guerra regionali e non che si avvicinano al Golfo Persico, dove, secondo le autorità persiane, regna la sicurezza grazie alle azioni a difesa dell’Iran .

Fonte: Hispantv Traduzione: Lucino Lago

https://www.controinformazione.info/netanyahu-la-marina-israeliana-e-pronta-a-bloccare-le-rotte-di-esportazione-del-petrolio-iraniano/

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Colombia

Sconcerto, ambivalenza, incapacità, crisi economica e sociale, dilagare di corruzione e assassini di decine di leader sociali segnavano il primo semestre del governo di destra di Ivan Duque in Colombia, in cui i cittadini temono che per sopravvivere si appelli a due guerre simultanee: una interna e l’altra contro il vicino Venezuela. Il suo permanente e monotono bombardamento verboso contro il governo venezuelano, il movimento delle truppe verso il confine e il finanziamento delle attività (politiche e sovversive) degli oppositori radicali del Paese vicino, culminarono in un’operazione infruttuosa progettata da Washington e affidato al suo governo, introdurre “aiuti umanitari” in Venezuela, mettendo in pericolo la pace nella regione. L’unità mostrata dall’esercito venezuelano generava un “effetto rimbalzo” su quelli colombiani. La confessione di Duque al presidente degli Stati Uniti Donald Trump, in una conversazione telefonica (rivelata da Nicolás Maduro), secondo cui l’esercito colombiano non sarebbe disposto a essere coinvolto in un conflitto (almeno aperto) col Venezuela, è un grosso ostacolo sul percorso dei falchi a Washington… e, soprattutto, sul futuro della Colombia. E c’è stata la rottura delle relazioni diplomatiche annunciata dal Presidente Nicolás Maduro. In Venezuela vivono circa cinque milioni di colombiani e vasti settori della popolazione di confine ricevono prodotti (alimentari, benzina tra gli altri) dal Paese vicino, in un confine che fino al 1° marzo era attivo e dal libero transito su ponti, orsi d’acqua e cosiddette “strade verdi”.colombia-venezuela-1-720x582 (1)

Guerra fredda 2

Il potere economico cinese, combinato con la deterrenza militare della Russia e la dipendenza europea dalla Russia per il suo approvvigionamento energetico, mostra che l’Europa non può permettersi di seguire il suo alleato americano nel comportarsi provocatoriamente contro l’asse sino-russo.

L’Europa ha inoltre sofferto di guerre americane in Medio Oriente e delle ondate di migranti causate da questo. Piccoli scatti di autonomia strategica possono essere visti nella creazione dello strumento a sostegno degli scambi commerciali (INSTEX), un sistema di pagamento alternativo al dollaro per aggirare le sanzioni contro l’Iran. Il poco o nessun supporto diplomatico esteso alla posizione anti-russa dell’Ucraina da parte della Francia e della Germania potrebbe essere visto come un altro segno di una maggiore indipendenza degli europei. La recente Conferenza sulla sicurezza di Monaco, con Poroshenko presente, ha ulteriormente confermato che la Merkel intende fare affidamento sull’approvvigionamento di gas russo nell’interesse della diversificazione energetica.

Le azioni combinate diplomatiche, militari ed economiche della Russia e della Cina in Europa sono decisamente più limitate ed efficaci in Europa rispetto ad altre parti del mondo come il Medio Oriente e l’Asia. La retorica politica, amplificata dai media, cioè contro la cooperazione tra Europa, Russia e Cina, serve solo gli interessi degli Stati Uniti. La Russia e la Cina stanno riuscendo a proporre valide alternative all’ordine mondiale unipolare di Washington, estendendo ai paesi europei una libertà strategica che altrimenti non sarebbe loro disponibile in un ordine mondiale unipolare diretto da Washington.

Merkel con Putin

Non è ancora chiaro se le capitali europee si stiano rivolgendo a Mosca al di fuori del sentimento anti-Trump piuttosto che anti-americano. Resta da vedere se questi cambiamenti sono temporanei e attendono il ritorno alla presidenza degli Stati Uniti di qualcuno che crede nell’egemonia liberale, o se i cambiamenti in corso sono i primi di una serie di sconvolgimenti che rimodelleranno progressivamente l’ordine mondiale da unipolare a multipolare , con l’Europa che sarà chiaramente uno dei poli principali.

Fonte: Strategic Culture

Traduzione: Sergei Leonov

https://www.controinformazione.info/passi-finali-della-rivoluzione-multipolare-contenere-gli-stati-uniti-in-europa/