Lotta di classe

In questi giorni si parla molto delle cosiddette clausole di salvaguardia sull’IVA. I media non perdono occasione di ricordarci come, a meno che il futuro governo non sia in grado di “reperire” 23 miliardi nel 2020 e 28 miliardi nell’anno successivo (per mezzo di tagli alla spesa pubblica e/o maggiori tasse), scatterà l’aumento automatico delle aliquote IVA (al 25,2 per cento nel 2020 e al 26,5 per cento nel 2021) previste, per l’appunto, dalle suddette clausole di salvaguardia. Difficile, se non impossibile, però, trovare qualcuno che osi mettere in discussione la logica di fondo di questa falsa alternativa, presentata come una sorta di “legge naturale”.

In realtà, come vedremo, si tratta dell’ennesimo strumento di classe travestito da tecnicismo economico. Per capire perché, partiamo dalle basi. L’IVA (imposta sul valore aggiunto), come sappiamo fin troppo bene, è una tassa – attualmente pari al 22 per cento – applicata a tutti i beni e servizi che vengono acquistati nel territorio nazionale. Come ogni tassa indiretta, si tratta di un’imposta intrinsecamente regressiva, poiché incide maggiormente sui redditi bassi che su quelli alti.

Forse non tutti sanno, però, che l’IVA in Italia non esiste da sempre: essa è stata introdotta nel 1972 – inizialmente al 12 per cento – in attuazione di due direttive europee finalizzate ad armonizzare i sistemi fiscali degli Stati membri in vista di una futura integrazione economica dell’Unione europea (allora nota come CEE).

L’introduzione dell’IVA e più in generale l’adeguamento della legislazione italiana alle direttive comunitarie europee sancì l’avvio di un graduale scardinamento del modello tributario «informato a criteri di progressività» previsto dalla Costituzione repubblicana del 1948 (art. 53). Un sistema informato al suddetto principio non poteva che privilegiare l’imposizione diretta sui redditi – con aliquote diverse a seconda della fascia di reddito, al fine di redistribuire ricchezza dalle fasce alte a quelle basse – rispetto a quella indiretta sui consumi.

Dal dopoguerra fino alla fine degli anni Settanta, infatti, la struttura impositiva italiana fu caratterizzata da 32 scaglioni di reddito ed altrettante aliquote, la più alta delle quali si aggirava intorno al 70-80 per cento, come si può vedere nella figura 1. Le imposte indirette, d’altro canto, erano relativamente basse (soprattutto bolli su prodotti specifici) rispetto al prelievo sui consumi introdotto dall’IVA.

Che l’introduzione dell’IVA rappresentasse una misura antipopolare che avrebbe gravato soprattutto sulle classi più deboli era ben chiaro ai partiti di sinistra dell’epoca. Come notarono i deputati comunisti nella relazione di minoranza sul disegno di legge per la delega al governo per la riforma tributaria, l’IVA avrebbe comportato «il più consistente e più concentrato fattore di aumento – e per giunta per legge – del costo della vita, concentrato sul comparto dei prodotti alimentari che rappresentano una quota di spesa tanto più alta quanto più bassa è la capacità di acquisto del consumatore».

A chi opponeva che l’Italia era tenuta ad introdurre l’IVA per via dei suoi obblighi verso la CEE (il «ce lo chiede l’Europa» ha una lunga storia), i deputati del PCI, al tempo ancora ben consapevoli del nesso inscindibile tra sovranità nazionale e salvaguardia del modello democratico-costituzionale, replicarono che «a nostro avviso nessun obbligo o impegno verso la CEE è superiore all’interesse nazionale». (Per carità di patria eviterò di fare raffronti con l’attuale sedicente sinistra).

Ad ogni modo, la legge fu approvata. Da quel momento in poi, come si può vedere nelle figure 2 e 3, l’IVA – e con essa la pressione fiscale generale – ha continuato inesorabilmente ad aumentare nel corso degli anni, per l’effetto combinato dell’aumento della spesa per interessi (combinato “divorzio”-SME; per maggiori informazioni vedasi https://www.facebook.com/thomasfazi/posts/2351892221570569) e della severa contrazione fiscale richiesta dall’adesione dell’Italia al regime di Maastricht, fino ad arrivare ai livelli improponibili che conosciamo oggi.

Contemporaneamente, a partire dagli anni Settanta e in maniera sempre più decisa nel corso degli anni Ottanta e Novanta, l’aliquota massima sui redditi è scesa altrettanto inesorabilmente (figura 4), distruggendo la progressività delle imposte dirette.

Il risultato è stato il ribaltamento totale della natura stessa del sistema fiscale italiano: da strumento di redistribuzione dall’alto verso il basso – come previsto dalla Costituzione – si è trasformato in un meccanismo di drenaggio delle risorse dai lavoratori e dal ceto medio verso le grandi rendite finanziarie. Un ruolo di spicco in tal senso ha giocato l’aumento incessante dell’IVA, che oggi rappresenta circa il 25 per cento delle entrate tributarie.

L’apice di questo processo si è raggiunto proprio con l’introduzione nel luglio del 2011 – dunque nel pieno della tempesta perfetta orchestrata dalle oligarchie finanziarie, con la compiacenza della BCE, ai danni dell’Italia – della cosiddetta “clausola di salvaguardia” da parte del governo Berlusconi IV (che godeva – è il caso di ricordarlo – dell’appoggio della Lega). Essa prevede, come già ricordato, un aumento automatico delle aliquote IVA e delle accise qualora il governo non sia in grado di reperire le risorse necessarie a soddisfare i vincoli di bilancio europei. Siamo dunque di fronte all’istituzionalizzazione di quel “pilota automatico” che ormai caratterizza da anni la politica economica europea, finalizzata alla definitiva depoliticizzazione e de-democratizzazione del processo decisionale.

Le clausole di salvaguardia sono state attivate per la prima volta da Monti nel 2011 e poi nuovamente da Letta nel 2013. I governi successivi sono invece riusciti a “sterilizzare” le clausole di salvaguardia per mezzo di riduzioni di spesa e aumenti delle tasse, misure che comunque hanno colpito soprattutto i ceti medio-bassi. Per quanto riguarda l’attuale (ormai ex) governo giallo-verde, esso non ha fatto nulla per mettere in discussione il principio della clausola di salvaguardia: non avendo reperito le risorse necessarie per evitare l’aumento dell’IVA nell’ultima legge di bilancio, si è limitato a rinviarne l’entrata in vigore, riservandosi di trovare le risorse in un secondo momento. In questo modo la cifra si è quasi duplicata rispetto agli anni passati: 23 miliardi nel 2020 e 28 miliardi nell’anno successivo, come si diceva, se si vuole evitare l’aumento dell’aliquota IVA al 25,2 per cento nel 2020 e al 26,5 per cento nel 2021.

Questo ci porta alla situazione in cui ci troviamo oggi, in cui il prossimo governo – qualunque esso sia – si troverà a dover scegliere tra tagliare la spesa pubblica e/o aumentare le tasse e aumentare l’IVA. Certo, si potrebbero – e dovrebbero – rivedere drasticamente le aliquote massime, ma è lecito dubitare che questo darebbe gli esiti sperati (almeno in tempi brevi) – e permetterebbe di rispettare i vincoli europei – in un contesto di alta evasione e di piena libertà di movimento dei capitali.

Esiste ovviamente una terza opzione: ripudiare una volta per tutte il perverso meccanismo della clausola di salvaguardia e gli assurdi vincoli di bilancio su cui si basa e abbassare drasticamente l’IVA (il che ovviamente non è in contraddizione con la reintroduzione di un meccanismo tributario fortemente progressivo; anzi, la reintroduzione di forme di controllo sui movimenti di capitali ne rappresenterebbe una condizione probabilmente necessaria). Ma questo vorrebbe dire ripudiare tutta l’architettura di Maastricht, un’ipotesi che al momento non è al vaglio di nessuno dei principali partiti politici.

Thomas Fazi

https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=62456

Hong Kong

Nel 1997 il prodotto interno lordo di Hong Kong era il 27 percento del prodotto interno lordo della Cina. Ora è solo il 3 per cento e cala. Con grande frustrazione di Stati Uniti e Gran Bretagna, le più grandi banche del mondo sono ora in Cina e sono di proprietà statale. Ciò che confonde la classe capitalista, molto più dell’incredibile crescita della Cina, è che le prime 12 società cinesi nella lista Fortune 500 degli Stati Uniti sono tutte di proprietà statale e sovvenzionate dallo Stato. Includono enormi aziende su petrolio, energia solare, telecomunicazioni, ingegneria e costruzioni, banche e industria automobilistica. (Fortune.com, 22 luglio 2015). Il potere delle multinazionali statunitensi è profondamente minacciato dallo sviluppo della Cina attraverso la Belt and Road Initiative e dalla crescente posizione nei commercio ed investimenti internazionali.

Stati Uniti e Gran Bretagna hanno creato una rete di collaborazionisti
Quando Gran Bretagna e Cina firmarono l’accordo “Un Paese, due sistemi”, tutti gli interventi stranieri e le rivendicazioni coloniali su Hong Kong avrebbero dovuto finire. La piena sovranità doveva tornare in Cina. Tuttavia, gli sforzi statunitensi e inglesi per impedire il ritorno di Hong Kong iniziarono prima della firma. Poco prima del trasferimento della sovranità, la Gran Bretagna istituì in fretta, dopo 150 anni di funzionari nominati, un governo parzialmente eletto, anche se ancora nominato. Istituirono e finanziarono rapidamente partiti politici, composti dai loro fedeli collaborazionisti. Milioni di dollari furono incanalati apertamente e segretamente a una rete di organizzazioni protette di servizi sociali, partiti politici, media e social media, organizzazioni studentesche e giovanili e sindacati istituiti per erodere il sostegno alla Cina e al Partito comunista cinese. La Confederazione dei sindacati di Hong Kong riceve finanziamenti dal National Endowment for Democracy (NED) degli Stati Uniti, insieme al sostegno inglese. Promuove “sindacati indipendenti e democratici” in Cina. L’HKCTU fu istituito nel 1990 per contrastare e ridurre la Federazione dei sindacati di Hong Kong fondata nel 1948, ancora la più grande organizzazione sindacale con 410000 membri. L’HKFTU ha subito anni di brutale repressione sotto il dominio coloniale inglese, combattendo per la protezione di base dei diritti dei lavoratori. Uno sciopero organizzato dalla HKFTU scosse il dominio coloniale britannico nel 1967. Lo sciopero divenne una ribellione in tutta la città innescata dai licenziamenti di massa dei lavoratori della fabbrica di fiori di plastica. Le autorità coloniali inglese repressero duramente la rivolta, provocando 51 morti e centinaia di feriti e scomparsi. L’HKFTU sostiene la Cina e si oppone alle manifestazioni reazionarie.

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Argentina di nuovo in lacrime

L’Argentina dimostra una tesi sulla quale insisto ormai da diversi anni e che probabilmente sarà anche venuta a noia ai lettori: ovvero il fatto che il neoliberismo sia totalmente fallimentare nella realtà, ma viene tenuto in vita da una comunicazione mediatica globale che del resto è consustanziale al sistema: se tutto è mercato è chiaro che la narrazione sarà quella imposta da chi possiede la proprietà dei mezzi di comunicazione.  Dovrebbe essere ormai in un museo delle cere assieme alle sue varianti alleliche, come l’ordoliberismo europeo,  come un fossile vivente, ma tutte le volte che esso si scontra col mondo reale viene narrativamente resuscitato e rinverginato. In questi giorni le primarie presidenziali – una sorta di pre elezioni in vista di quelle vere – hanno decretato una disfatta  per il miliardario ultra conservatore Macrì sotto il cui regno la povertà ha raggiunto il 32%, i massicci licenziamenti seguenti alle liberalizzazioni selvagge hanno portato la disoccupazione al 10%, l’inflazione è arrivata al 48 per cento, i salari e le pensioni sono congelati e la crescita ha fatto segnare un meno 2,6%. Questo anche grazie ai suggerimenti dell’Fmi che ha anche dovuto fare il prestito più grande della sua storia in modo che si potessero pagare i noti fondi avvoltoio e mettere il cappio al collo del Paese.

Tutto assolutamente prevedibile, l’ennesimo fallimento delle teorie dei ricchi, ma ciò che sorprende è che l’Argentina ci era già passata e quasi negli stessi termini, senza che però questo abbia avuto alcun effetto cognitivo. Negli anni ’90 il Paese fu dominato dal liberista Menem sotto il quale  il debito estero, la crescita dei tassi di interesse, la disoccupazione e la forbice tra la minoranza ricca e la maggioranza povera del Paese crebbero a ritmi inarrestabili, toccando vertici mai raggiunti in precedenza. Ne seguì la crisi drammatica di inizio secolo che tutti conosciamo e che dopo una girandola di presidenti per un giorno, diede la vittoria a Nestor Kirchner, il quale cambiò del tutto rotta verso un peronismo moderato riuscendo a far ripartire il Paese che raggiunse  un aumento annuo del pil superiore al 10% anche se naturalmente il rapporto con l’Fmi fu pessimo, ma intanto le riserve internazionali del paese superarono i 30 miliardi di dollari e  la disoccupazione scese al 7,35% mentre venivano denunciati i crimini del regime militare cosa che Menem si era ben guardato dal fare. Inoltre Kirchner si collegò a Lula (Brasile), Chavez (Venezuela), Bachelet (Cile), Vazquez (Uruguay), Correa (Ecuador) e Castro (Cuba), per dare vita a un progetto di sviluppo economico e sociale indipendente dal padrone Usa. Nel 2007, anche per gravi problemi di salute, lasciò il posto alla moglie Cristina Kirchenr , già senatrice del suo stesso partito, la quale vinse le elezioni e proseguì in queste politiche, anche se con meno fantasia, determinazione e successo. La stampa cominciò ad attaccarla perché il debito pubblico era salito dal 45 al 52  del pil e successivamente non aveva pagato gli obbligazionisti dei fondi avvoltoio che avevano partecipato alla ristrutturazione del debito del resto appartenente ai disastri dell’era Menem. Prima ancora della fine del suo mandato e per propiziare un cambio di politica a 180 gradi la Kirchner fu travolta da uno scandalo così fasullo da gridare vendetta: fu accusata di aver ostacolato la giustizia mettendo in atto un piano per insabbiare le responsabilità dell’Iran nell’attentato terroristico contro un centro ebraico, avvenuto a Buenos Aires nel 1994. Insomma cose di vent’anni prima da cui naturalmente è stata scagionata, ma che mostrano con chiarezza le orme di chi stava guidando sottobanco il cambiamento. In Argentina come in tutto il Sud America.

Ora come se la storia non di secolo prima, ma dell’altro ieri fosse stata azzerata e dimenticata gli argentini votarono a grande maggioranza per Macrì che esprimeva anche in maniera più chiara le stesse tesi e prospettive di Menem, ovvero le medesime  che avevano portato il Paese al disastro totale e questo perché una campagna mediatica aveva convinto che si sarebbe potuti uscire dalla nuova crisi con gli stessi metodi che avevano provocato la prima e naturalmente brandeggiando il timore di default tecnico di cui agli argentini frega relativamente ma impaurisce quegli investitori che invece di impiantare attività produttive si sono limitati a investire in titoli di stato, per la gran parte emesso in dollari. Se volessimo classificare l’economia liberista in termini etologici diremmo che è principalmente saprofaga, si nutre di escrementi finanziari, ma fa diffondere l’idea che si nutra di ambrosia. E’ evidente però che tutte queste oscillazioni sono impossibili da concepire senza una funzione mediatica che cerca di camuffare la realtà e di cancellare le sue evidenze.

Le lacrime dell’Argentina e gli avvoltoi

Nota: il reblog non funziona, quindi riporto integralmente l’articolo e colgo l’occasione per far notare che gli elettori ripetono sempre gli stessi errori

Requiem

Si prenda ad esempio il Mezzogiorno d’Italia, da sempre terra di emigranti, dove oggi si assiste a una fuga di massa soprattutto dei suoi giovani: “Così radicale, estesa, imponente la fuga da poter essere considerata la terza ondata migratoria dopo quella dei primi del ‘900 verso le Americhe, del secondo dopoguerra verso la Germania e Milano del miracolo economico o Torino di mamma FIAT (…) Non più solo cervelli in fuga, la cui formazione è comunque costata 30 miliardi di euro alle casse pubbliche, ma anche camerieri in fuga, dentisti in fuga, tubisti, saldatori, operai generici, infermieri, insegnanti delle elementari, autisti, baristi, pizzaioli. Un intero popolo scomparso così folto che gli arrivi degli immigrati, o di coloro che ritornano a casa, non riescono a compensare. Il saldo demografico è paurosamente negativo. 783.511 italiani (che sono parte di quei quasi due milioni di migranti) che hanno avviato le pratiche per i cambi di residenza o nuovi passaporti, di cui 218.771 in possesso della laurea. Dal Sud è fuggita, persa ai radar, la meglio gioventù: mezzo milione di giovani (564.796 per la precisione) di cui 163.645 laureati. (Antonello Caporale, Quasi due milioni via dal Meridione, e mezza Italia sta diventando un deserto, Millennium, novembre 2018). Un Paese che costringe i suoi giovani più preparati a fuggire all’estero per trovare un lavoro e uno stipensio che consenta di vivere, ma che ha bisogno di importare raccoglitori di pomodori a due euro l’ora, è una colonia, un Paese fallito.
Prosegue Caporale, che si basa sul rapporto SviMez dell’agosto 2018: “Oltre il Garigliano i paesi cadono come foglie in autunno. Scompaiono silenziosamente e nell’indifferenza, il conto lo tiene l’ISTAT che stila periodicamente la lista dei morituri: a oggi sono più di 1.650 i Comuni colpiti da un abbandono che s’annuncia definitivo, una morte triste e non più lenta che nei prossimi anni si gonfierà di altre vittime e presto certificheremo la desertificazione. (…) Un quinto dei Comuni italiani è infatti in cammino verso il nulla, un sesto della superficie nazionale resterà disabitata. Mura cadenti, pietre rotolate giù e rovi, solo rovi. Sarà il cimitero la nuova dimensione di questo svuotamento che infragilisce fino a consumarla tutta la colonna vertebrale del Paese, la linea montuosa centrale costellata fino a due decenni fa di villaggi, di comunità, insomma di vita, che invece cederà alla morte per via della fame che l’attanaglia. (…) Né capannoni né vacche, né sviluppo industriale né agricoltura sostenibile. Né strade, né treni. Tolti, tagliati, inutilizzati più di 6.000 km di ferrovia, il treno, da vettore economico e popolare, si è via via trasformato nel costoso ed efficiente connettore dell’Italia ricca, nella direttrice verticale tra le grandi città. Il Frecciarossa è il simbolo di un’Italia che ha scelto non due, ma una sola velocità. Biglietti alti, ma puntualità quasi sempre garantita per quelli che ce la fanno. Poi la seconda classe nel resto del Paese, specialmente al Nord, un reticolo di tratte per i pendolari mal tenute e mal gestite, mentre al Sud – terza classe – semplicemente il nulla”.

estratto da https://byebyeunclesam.wordpress.com/2019/08/08/buone-vacanze-a-tutti/

Tout va bien

Sì,  è avvenuto a Nantes  –  i tg non ve l’hanno  detto –  durante l’ATTO TRENTOTTESIMO: sono  38 sabati che le manifestazioni contro Macron e  il suo regime burocratico proseguono, nonostante le randellate, i gas, gli arresti,  le mutilazioni e  le morti:  ovviamente La 7  non  ve l’ha detto.

Sì le morti:  i manifestanti del popolo  a Nantes   erano arrabbiati per l’uccisione di un loro giovane, Steve Maia Caniço,  24  anni. Scomparso nella notte del 21-22  giugno durante una carica egli agenti per far cessare un  concertino  non autorizzato durante la Festa della Musica (autorizzata ) in corso quella sera, la sua sparizione  ha  suscitato a Nantes un’ondata di emozione. La domanda: “Dov’è Steve?”   è  fiorita sopra tutti i muri della  città. Da polizia e  ministero dell’Interno, nessuna risposta.

Steve  –  un giovane precario “animatore periscolare” –  è stato  ritrovato cinque settimane dopo. Affogato.  Il suo corpo è riemerso dalla Loira, a  un chilometro da luogo dove la  carica della polizia, e i gas,   lo aveva spinto  nel fiume. Non era stato il solo a finire nella Loira,  ma altri sono tornati a riva. Lui  no.

La polizia dice che non vede alcun rapporto fra la sua carica e a morte  di  Steve.

 

Quindi   l’inquietudine della città  si è trasformata in collera.  la manifestazione di  sabato 3 agosto, a  Nantes, è stata dedicata a   «pour Steve et contre les violences policières», ed ha assunt rapidamente il livello dello scontro. Ovviamente la “celere” di Macron (IGPN)  non si è fata superare in violenza.  L’uomo che  si vede a terra con un agente che lo strangola, aveva cercato di attrarre  l’attenzione deg.li agenti su un altro manifestante  che stava  male za causa della  saturazione di gas lacrimogeni.

 

Qualcuno  infatti agonizzava o quasi.

https://twitter.com/i/status/1158470662551416840

I  telegiornali non  ve l’hanno detto. Vi hanno mostrato ampi reportage su Mosca e i suoi manifestanti  per la democrazia, fotografatisismi.  In Francia non perché la democrazia, come tutti sanno, c’è, e la popolazione è contenta.

Per cui ve lo diciamo noi, coi nostri  poveri mezzi: no, in Francia la gente non è contenta.  Il popolo francese lotta ancora.

La rivolta contro il regime Macron, e la miseria imposta dalla UE,  continua e da 38 settimane.  Con morti e feriti.

 

 

L’articolo CREDEVA FOSSE A MOSCA – E INVECE E’ MACRON proviene da Blondet & Friends.

Esproprio

L’Off-Guardian racconta la storia della periferia europea meno nota, quella dei paesi dell’Europa Centrale e Orientale. Si tratta di una storia che ricorda quella raccontata in un libro a noi molto caro. L’ingresso dei paesi ex-comunisti all’interno dell’Unione Europea non serve ad elevare lo standard di vita di questi al livello dei paesi occidentali: serve a sfruttarne tutte le risorse, in primis una manodopera qualificata a basso costo, a costo di impoverire e desertificare paesi già più deboli.  

Di Frank Lee, 27 luglio 2019

Partiamo dai dieci paesi più poveri per reddito pro capite dell’Europa, in ordine crescente:

 

 

La media generale di reddito pro capite in Europa è di 37.317 dollari (dati 2018).Quello che salta all’occhio è che la maggior parte di questi paesi è o nei Balcani o nel Sud-Est Europa. Ma questo non è tutto.

Il Portogallo, il paese più povero dell’Europa occidentale con un PIL di 238 miliardi di dollari, è di poco superato dalla Repubblica Ceca (che è in realtà al centro dell’Europa), la migliore esponente dell’Est e il cui reddito nazionale è di 240 miliardi di dollari.

Pertanto, in termini di reddito pro-capite, la Repubblica Ceca è l’unico rappresentante dei paesi ex-sovietici in Europa. Questa scissione geopolitica non potrebbe essere più marcata. Queste due eurozone replicano la divisione tra il Sud e il Nord esistente in America con gli USA e il Canada da una parte e l’America Centrale e Latina dall’altra.

Gran parte dell’attenzione allo sviluppo europeo – o della sua assenza – si è concentrata sul divario tra l’Europa dell’Est e del Sud. La scissione attuale è attribuibile a strategie economiche provate, testate e fallite promulgate dalle varie istituzioni pro-globalizzazione: il FMI, la World Bank, il WTO eccetera.

La moneta unica, l’euro, è diventata a corso legale il primo gennaio 1999 ed è stata adottata dalla maggior parte dei paesi dell’Europa. Ma si è rivelata una rovina per la economia politica del Sud.

Quando stati sovrani differenti sono responsabili delle loro stesse strategie economiche e sono in grado di stampare e dare corso alla loro propria moneta sui mercati mondiali, ogni distorsione e cattiva allocazione delle bilance commerciali viene compensata da cambiamenti del tasso di cambio – in breve, dalla svalutazione. Questo si spera aggiusti gli sbilanciamenti e riporti all’equilibrio commerciale.

Tuttavia, questa strategia oggi non è più disponibile per gli stati europei del Sud, dal momento che non hanno più la loro propria moneta e, inoltre, sono sotto tutela della BCE. La periferia del Sud usa ora la stessa moneta del blocco del Nord, l’euro, e la BCE le chiede di adottare una politica economica che vada bene per tutti.

Pertanto, le svalutazioni sono escluse.

Dati i livelli più alti di produttività e i costi più bassi della Germania, dell’Olanda, della Svezia, della Francia eccetera, gli stati della periferia del Sud hanno iniziato ad accumulare cronici deficit di bilancia dei pagamenti. L’unica via d’uscita per loro disponibile è quella che viene definita “svalutazione interna” – vale a dire l’austerity.

Questo provoca bassa crescita, alta disoccupazione, intensa emigrazione, spopolamento, tagli alla spesa pubblica e tutte le altre strategie di aggiustamento strutturale del FMI – strategie fallite praticamente ovunque.

Se ci occupiamo dell’Europa dell’Est, facciamo luce su un differente ordine di problemi. La maggior parte dei paesi europei dell’Est, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia hanno mantenuto la loro moneta; salvo casi specifici come la Lettonia il cui governo, a differenza del suo popolo, è entrata dove osano le aquile – nell’eurozona e nell’euro

 

(NB Alcuni paesi europei occidentali, come per esempio il Regno Unito, la Danimarca, la Svizzera e la Norvegia, hanno – saggiamente – mantenuto le loro monete).

leggi tutto su http://vocidallestero.it/2019/08/01/laltra-periferia-dellunione-europea/