Russia ed Europa

Forse mai come in questi anni il tema dei rapporti fra Russia e Europa è stato così presente nell’agenda della politica internazionale e soprattutto nella riflessione degli intellettuali europei. Il motivo di tanta attenzione è da ricercarsi, forse, nella presa di coscienza del fatto che l’Unione europea è stata ed è succube delle scelte politiche ed economiche degli Usa, proprio in un periodo in cui parte dei paesi dell’Europa dell’Est assume posizioni di distanza nei confronti del liberalismo e del turbocapitalismo statunitense. La rivista quadrimestrale Eurasia (n. 2/2019; Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma; pagg. 207; euro 18; ordini: www.eurasia-rivista.comaffronta questo tema di grande interesse e vi dedica il maggiore dei due dossari (l’altro è sull’America latina) ricchi di analisi con documenti poco noti. L’editoriale del direttore Claudio Mutti mette a fuoco il perimetro della discussione tenendo presente le costanti ideologiche e filosofiche del concetto di Eurasia ma analizza anche, dato non secondario, le teorie degli studiosi dell’Eurasiatismo classico e quelle dei teorici del neoeurasiatismo: Dugin, Terracciano e Thiriart. Questi ultimi hanno tracciato, in vari periodi degli ultimi decenni, analisi utili per ricostruire un itinerario che possa liberare l’Europa da un lato e la Russia dall’altro perché i due spazi possano trovare una unità e opporsi all’egemonia statunitense. Mutti offre, con il suo saggio, collegamenti e spunti di riflessione di rilievo. Il dossario si apre con un saggio di Gérard Dussoy che si richiama alla geografia come elemento utile per superare ideologie ed etnocentrismi. Altri saggi affrontano il concetto di Asse Roma-Berlino-Mosca, la realizzazione del mondo multipolare, l’individuazione degli ostacoli al dialogo euro-russo e un’analisi sulla Moldavia e sulle interazioni fra Ue e Russia nel settore militare. Ancora: viene affrontata la crisi dei Balcani e la Turchia come elemento non secondario dell’intesa fra Europa e Russia. Il dossario sull’America latina affronta il nuovo corso brasiliano, la dipendenza cui deve sottostare l’Argentina e la “normalizzazione” del continente iberoamericano. Il fascicolo si chiude con un documento di Jean Thiriart (Il vero pericolo tedesco) e le consuete recensioni.

Segnalibro. La Russia e l’Europa al centro del dibattito della rivista Eurasia

GAFA

La parola chiave del liberismo è concorrenza. Corre l’obbligo di competere per ogni cosa, in alto e in basso. Si invera l’apologo africano del leone e della gazzella: entrambi si svegliano e prendono a correre, per motivi opposti. Tutti contro tutti, prede e predatori, lupi ed agnelli, la vita come gara e campo di battaglia. L’esperienza ci insegna che l’antagonismo è per noi, trasformati in nemici reciproci, il monopolio è per lorsignori. E’ il contrario del liberalismo, che ha perso due lettere e ha gettato la maschera: liberismo sive monopolio. Secondo un maestro del pensiero economico liberale, Friedrich Von Hajek, il mercato, per essere tale, deve essere aperto. Tutto il contrario della realtà. L’ economista austriaco pronunciò una sentenza nei confronti del collettivismo che oggi possiamo applicare al liberismo monopolista: chi possiede tutti i mezzi, determina tutti i fini. I due monopoli più potenti sono quello finanziario, la creazione e gestione della moneta attraverso l’arma del debito, e quello tecnologico, che ha invaso rapidamente tutti gli ambiti economici, culturali, di costume, assumendo il controllo capillare delle nostre vite. I super giganti sono essenzialmente quattro, Google, Amazon, Facebook, Apple, tutti americani, uniti nell’acronimo GAFA. Nel prossimo futuro è probabile si aggiunga un altro temibile attore globale, il cinese Huawei, in possesso della decisiva tecnologia di telecomunicazioni ad altissima velocità 5G. Intaccare la potenza del monopolio globale da essi esercitato è l’impresa più complessa dei prossimi anni, resa ancor più ardua dal legame inestricabile con il deep State, ovvero agenzie riservate e struttura militare degli Stati Uniti.
Siamo precipitati nel monopolio radicale descritto da Ivan Illich, che non ebbe il tempo di conoscere del tutto il monopolio fintech che penetra nella vita intima e colonizza le coscienze: “Con questo termine io intendo non il dominio di una marca ma la necessità industrialmente creata di servirsi di un tipo di prodotto. Si ha il monopolio radicale quando un processo di produzione esercita un controllo esclusivo sul soddisfacimento di un bisogno pressante, escludendo la possibilità di ricorrere, a tal fine, ad altre attività non industriali.” Un discorso che trova la sua declinazione in tutte le branche dell’industrializzazione e tecnicizzazione, in particolare a quella dei servizi. Si può rinunciare all’iPhone, non si può rinunciare ad essere reperibili, si può evitare l’automobile, ma la mobilità è un obbligo quotidiano quanto la connessione alla grande rete. Aggiungeva il prete di Cuernavaca “quando il monopolio radicale viene scoperto, in genere è troppo tardi per liberarsene”. Proprietari di fatto delle nostre esistenze, è nelle loro mani la libertà individuale e collettiva.

estratto da https://www.ariannaeditrice.it/articoli/gafa-il-monopolio-radicale

Lotta al contante

Il mito della lotta al contante per combattere l’evasione nasce dal solito falso mito. E cioè che in Italia sia particolarmente alta per colpa dei droghieri, dei tabaccai, degli idraulici, dei fornai, che portano tutti i loro soldi evasi dal fisco alle Cayman. I dati però, come sempre raccontano un’altra storia. Lo ha ammesso anche Vincenzo Visco in un’intervista uscita proprio quest’oggi. “L’evasione non dipende soltanto dall’uso del contante al consumo, gran parte dell’evasione avviene senza contante, semplicemente manipolando i bilanci delle imprese”***.

Infatti se andiamo a vedere i dati disaggregati****, si nota come l’evasione di artigiani e piccoli commercianti (i famigerati scontrini non emessi) si attesti sugli 8 miliardi di euro l’anno. Una miseria. A fronte per esempio dei circa 40 miliardi di euro l’anno non versati nelle casse dell’erario italiano dalle grandi multinazionali, o dei 22 miliardi di euro l’anno evasi ed elusi dalle società di capitali.

Pur alzando ulteriormente le aliquote, in Italia, si ricaverebbe una miseria rispetto alle reali necessità del Paese. E non si toccherebbero neanche lontanamente i grandi patrimoni. Sopra i 55 mila lordi (persone con un buono stipendio, non di certo dei ricchi) è la fascia che versa circa il 35% dell’IRPEF totale (che è sui 190 miliardi di euro). Pur aumentando del 10% la pressione fiscale su queste fasce (a salire ovviamente) si tratterebbe di circa 8 miliardi. Briciole appunto. Quando in queste ore, schioccando le dita, Mario Draghi ha creato dal nulla 20 miliardi al mese di QE. Che andranno come al solito nelle tasche delle fasce più ricche della popolazione.


* “Usa, multa record alla Siemens, 800 milioni di dollari per corruzione” https://www.repubblica.it/…/siemens-multa/siemens-multa.html
** Germania, maxi-frode fiscale “cum-ex”: perquisizione negli uffici della Commerzbank https://www.ilfattoquotidiano.it/…/germania-maxi-f…/5444010/
*** Confindustria: “Sì a tassa sui contanti”. Visco: “Vera evasione da manipolazione bilanci delle imprese” https://www.repubblica.it/…/confindustria_la_proposta_di_t…/
**** Nel Lazio evasione fiscale aumentata del 3,9% https://www.lavorolazio.com/nel-lazio-evasione-fiscale-aum…/]

leggi tutto http://appelloalpopolo.it/?p=52834

 

Roba semplice

Non solo ora dipendiamo dalla Cina per fabbricare le nostre mutande, ma tutte quelle mutandine e pantaloncini e camicie devono essere trasportati da una parte all’altra del pianeta da navi portacontainer alimentate da combustibili fossili. Mentre potremmo produrli proprio dove viviamo, pagare ai lavoratori un salario decoroso per fabbricarli e contemporaneamente ridurre l’inquinamento. Non è una scelta difficile, anche se i vostri boxer costerebbero un dollaro in più.

E a prescindere dal fatto che vi preoccupiate o meno del pianeta, del clima e dell’estinzione delle specie, ora abbastanza persone se ne preoccupano e questo diventa un fattore sempre più determinante nel processo decisionale su questi argomenti. E c’è dell’altro. Henry Ford lo aveva capito: perché la tua attività abbia successo, i lavoratori devono essere pagati abbastanza per permettersi i tuoi prodotti. L’intera “globalizzazione” verso i paesi con salari più bassi non solo ha abbassato i prezzi negli Stati Uniti e in Europa, ma anche i salari.

E questo a sua volta ha aperto la strada a una maggiore retribuzione per i dirigenti, a prezzi delle azioni e dividendi sempre più elevati, ecc., in altre parole a una maggiore disuguaglianza. Pochissimi capiscono i meccanismi che conducono a questo, ma sempre più persone lo capiranno, e dovranno capirlo, con il loro salario che si abbassa a livello cinese.

Ad ogni modo, i grandi piani Sintetici Egemonici di Mark Carney sono “troppo poco e troppo tardi”. Non che questo gli impedirà di blaterare a riguardo – dopo tutto, lui rappresenta le classi dominanti, che stanno molto bene e vorrebbe stare ancora meglio. Ma anche lui, e loro, non possono negare che la globalizzazione è come uno squalo, che quando non può più muoversi muore. Potremmo farne il titolo di un film horror: La Globalizzazione non dorme mai…

E Trump gioca il suo ruolo meravigliosamente. Non che sia il più intelligente di tutti, tutt’altro, ma riconosce che la globalizzazione fa del male all’America. E che la Cina, non molto tempo fa un paese del terzo mondo, ora è forse  la più grande economia del mondo e dovrà essere assoggettata a regole e controlli completamente diversi rispetto, diciamo, al 1980.

La Cina deve aprire la propria economia ai prodotti statunitensi e dell’UE, altrimenti questi devono chiudere la propria a ciò che la Cina produce. A questo serve la guerra commerciale, e/o la guerra valutaria, l’intero pacchetto. E forse c’era bisogno di un elefante come Trump, ma questo non è importante. L’intera economia mondiale ha raggiunto i limiti della sua spregiudicatezza e lo squilibrio deve essere aggiustato

http://vocidallestero.it/2019/09/05/la-globalizzazione-ha-raggiunto-il-suo-picco/