Il cuneo

Occorre segnalare che, indipendentemente dalle circostanze, questa situazione risponde agli obiettivi e agli interessi geopolitici degli USA o della elite di potere di Washington. In primo luogo, dati i rapporti di vicinanza politica e militare tra Azebaijan e Turchia e fra Russia e Turchia, Washington ha la opportunità di aprire una breccia nelle relazioni fra Mosca ed Ankara, dato che una buona armonia di rapporti fra Mosca e Ankara, è una autentico grosso problema per gli USA e la UE poiché questa è basata su interessi economici e militari comuni e molto ampli fra i due paesi ed è una relazione osteggiata dagli strateghi della NATO.
Quella fra Turchia e Russia è una relazione che non si è infranta, nonostante le tensioni in Libia e in Siria. Nonostante gli sforzi della Nato e della UE per ottenere questa rottura dell’asse Mosca Ankara.

La Nato è cosciente che si sta formando una grande coalizione anti occidentale su scala globale, fra Russia-Iran-Turchia-Cina e per questo motivo la NATO considera prioritariamente l’opportunità di far rompere l’intesa fra Russia e Turchia che è molto pericolosa per l’occidente soprattutto per il futuro. La NATO è consapevole che una gran guerra nel Caucaso obbligherà la Russia a reagire ed è poco probabile che questa sia una reazione che piacerà alla Turchia e tale fattore causerà difficoltà a Erdogan nel mantenere l’alleanza con Mosca.
Pertanto in questa situazione molto dipenderà dalla posizione di Ankara , fino dove arriverà la Turchia nel suo appoggio all’Arzebaijan, se questa entrerà in conflitto indirettamente con la Russia o se arriverà ad un accordo di compromesso. Tuttavia tenendo in conto di come si sviluppa questo conflitto, dove si ci sono state minacce incrociate di di colpire le installazioni nucleari di Armenia e dell’altro lato, installazioni similari per importanza, tutto potrebbe precipitare. Questo conflitto può essere parte di uno scenario molto più ampio in cui possibilmente la parte più estremista dei falchi USA, assieme al Pentagono, si sono imbarcati nel sobillare il confitto per i loro interessi.
Se uniamo questo al protagonismo del leader francese Macron che sta facendo una crociata in cui si è autoproclamato “campione” della civilizzazione europea contro la Russia, allora intendiamo la ratio degli avvenimenti. (Vedi: https://www.politico.eu/article/emmanuel-macron-baltics-trip-france-russia-strategy/)
I neocon occupano un posto chiave nell’apparato militare e di intelligence degli USA, incluso il Pentagono, e sopingono per azioni più decise contro la Russia. Il segretario della difesa Mark Esper ha una relazione difficile con Trump e professa la russofobia come sua ossessione tanto da proclamare la Russia come il principale nemico degli USA (per Trump è la Cina). Questi “falchi” neocon del Pentagono vogliono suscitare una partecipazione diretta degli USA nei teatri remoti dove affrontare la Russia, e questi hanno un piano B per esercitare una maggiore pressione politica e militare sulla Russia che deve essere esercitata dai paesi satelliti degli USA, soprattutto da quelli ubicati lungo le frontiere russe, proprio dove l’Occidente sta costruendo un cordone sanitario anti russo continuo da molto tempo ed in modo persistente.

Giappone

Fonte: Thomas Fazi

Da oggi (16 settembre) il Giappone ha un nuovo primo ministro: Yoshihide Suga, presidente del Partito Liberal Democratico ed ex ministro degli affari interni e delle comunicazioni e segretario generale del governo negli esecutivi guidati da Shinzō Abe. Sotto la sua guida, possiamo essere certi che il Giappone continuerà a impartire lezioni di macroeconomia al mondo e a sfatare i molti miti che, ahinoi, continuano ancora a circolare in materia di deficit e di debito pubblico, soprattutto nella nostra disgraziata Europa.
Solo qualche giorno fa, nel corso di un’intervista, Suga ha dichiarato chiaramente che non c’è alcun limite al volume di titoli di Stato che può emettere il governo giapponese e dunque al rapporto debito/PIL del paese, che quest’anno dovrebbe raggiungere il 270 per cento (sì, avete letto bene). «L’unica cosa che conta in questo momento è migliorare le condizioni economiche: creare posti di lavoro e proteggere le imprese», ha aggiunto.
Suga si è limitato a enunciare una banalissima verità, che, però, in un tempo di inganno universale (soprattutto sui temi economici) quale quello che viviamo da anni, acquista una valenza quasi rivoluzionaria.
Detto molto semplicemente, per uno Stato che dispone della sovranità monetaria e che emette debito nella propria valuta, non c’è alcun limite intrinseco alla quantità di debito che esso può emettere, né in termini assoluti né in rapporto al PIL; non c’è alcuna “soglia” oltre la quale si va incontro a chissà quali conseguenze nefaste (giusto qualche anno due economisti di fama mondiale pubblicarono un celebre paper, poi smontato da un studente ventenne, in cui affermavano che il debito pubblico diventava un problema una volta superata la soglia del 90 per cento del PIL: in pratica il Giappone, con il suo rapporto debito/PIL del 270 per cento, dovrebbe essere messo peggio della Libia).
La verità è che uno Stato che rispetta le suddette condizioni – cioè che emette la propria valuta ed emette debito nella suddetta valuta – non potrà mai rimanere a corto di soldi, né potrà mai trovarsi impossibilitato a finanziare (e rifinanziare) il proprio deficit/debito, per il semplice fatto che, nel caso in cui non vi fossero investitori privati disposti a comprare i titoli emessi dallo Stato al tasso di interesse fissato da quest’ultimo – come dimostra il Giappone, lo Stato ha sempre il potere di determinare il tasso di interesse sui propri titoli –, la banca centrale può sempre intervenire per comprare i titoli essa stessa o per rimborsare i titoli in scadenza (quello che in gergo tecnico si chiama rollover) attraverso la creazione di denaro dal nulla.
Come viene riconosciuto persino in uno studio della BCE di qualche anno fa: «In uno Stato che dispone della propria moneta fiat, l’autorità monetaria e quella fiscale sono in grado di garantire che il debito pubblico denominato nella propria valuta nazionale non sia soggetto al rischio di default, nella misura in cui i titoli emessi dal governo sono sempre monetizzabili in modo equivalente».
Questo è esattamente quello che la Banca del Giappone sta facendo da anni (ma che in misura minore stanno facendo un po’ tutte le banche centrali). Oggi essa possiede quasi il 45 per cento di tutti i titoli di Stato emessi dal Giappone; considerando che la variazione nella quota di titoli detenuta dalla Banca del Giappone negli ultimi anni è aumentata molto più della variazione nel volume di titoli totali emessi, questo significa che la Banca del Giappone negli ultimi anni ha effettivamente finanziato per intero – o “monetizzato” – il deficit di bilancio giapponese.
In quest’ottica, risulta evidente come il debito pubblico, in un regime di cooperazione tra banca centrale e Tesoro, non sia altro che un debito che un ramo dello Stato ha nei confronti di un altro ramo dello Stato: un debito, in altre parole, che lo Stato ha nei confronti di se stesso e dunque, a tutti gli effetti, fittizio. Un debito, cioè, che esiste solo dal punto di vista contabile, ma che non comporta conseguenze di alcun tipo, a prescindere dalla sua entità, perché non deve realmente essere ripagato. Come riconosceva un economista tutt’altro che radicale come Luigi Spaventa già negli anni Ottanta a proposito della cooperazione tra Tesoro e Banca d’Italia che era la norma prima del “divorzio” del 1981: «Lo stock di base monetaria creata tramite il canale del Tesoro può essere considerato un debito solo convenzionalmente. Ciò si vede bene qualora si consolidi il Tesoro con la banca centrale: in questo caso manca un vero e proprio debito corrispondente alla base monetaria creata dalla Banca d’Italia per conto del Tesoro, e in ciò consiste l’essenza del potere del signoraggio».

Leggi tutto su: https://www.ariannaeditrice.it/articoli/la-lezione-del-nuovo-premier-giapponese-non-c-e-vincolo-al-debito-emesso-da-uno-stato-che-dispone-di-sovranita-monetaria

Il ritorno dei Gilet gialli

Il movimento dei Gilet Gialli è iniziato il 17 novembre 2018 come reazione dei cittadini alle proposte del governo per aumentare le tasse sul carburante. Ampliando gradualmente il suo appello antielitario per una maggiore giustizia sociale e fiscale in Francia, molte delle proteste del fine settimana sono degenerate in scontri violenti che hanno coinvolto manifestanti, anarchici, elementi criminali e polizia.

Nota: Mentre il Governo francese si unisce alle proteste internazionali per la repressione delle manifestazioni ad Hong Kong, lo stesso Macron finge di ignorare la repressione delle proteste dei “gilet gialli che in Francia ha lasciato sul campo molti feriti ed un numero di arresti che sono superiori rispetto a quelli di Hong Kong. Per questo motivo il governo di Macron viene tacciato di ipocrisia e di strabismo.

Fonte: Fort Russ

Traduzione: L.Lago

https://www.controinformazione.info/si-rilancia-in-tuta-la-francia-la-protesta-dei-gilet-gialli/

Madrepatria azzurra

“Ci stavano mandando in missione a Megisti, un’isola sperduta nell’Egeo. La più piccola, la più lontana. Importanza strategica: zero”. È il giugno del 1941 e con questo stato d’animo il tenente Raffaele Montini è alla guida un plotone sgangherato di otto soldati italiani che presto verranno dimenticati in una piccola isoletta abitata da greci distante solo un paio di chilometri dalla costa turca.

Megisti, la piccola isola conosciuta anche con il nome di Kastellorizo o Castelrosso, all’epoca era un possedimento italiano. Dagli anni ’20, l’Italia controllava infatti tutte le isole dell’arcipelago del Dodecaneso, di cui Megisti rappresenta l’estensione più orientale. Sarebbe stato interessante sapere che emozioni avrebbe provato il tenente Montini ricordando la sua avventura qualche anno più tardi, nel 1947 quando, con il trattato di Pace firmato a Parigi, Megisti e tutte le altre isole del Dodecaneso furono cedute dall’Italia alla Grecia.

Montini non è però mai esistito nella realtà. È un personaggio di fantasia interpretato da Claudio Bigagli in “Mediterraneo”, il film di Gabriele Salvatores del 1991 che fu premiato negli Usa con l’Oscar per il miglior film straniero.

Mentre proprio nella zona di mare in cui si trova Megisti si sta alzando in queste settimane la tensione tra Grecia e Turchia, fa un certo effetto pensare a quello che diceva il tenente Montini guardando sconsolato l’isola semideserta all’inizio del film: “Importanza strategica: zero”.

Megisti rappresenta oggi uno dei nodi principali su cui Ankara e Atene si stanno scontrando furiosamente per il controllo strategico del Mediterraneo orientale. A parte una leggera collisione tra una nave da guerra turca e una greca, per ora il conflitto si è consumato soltanto a parole, sebbene i toni utilizzati in Turchia siano incandescenti, come il caso di un consigliere sulla politica estera di Erdoğan che, in diretta TV, ha menzionato esplicitamente la possibilità della guerra sostenendo che lui stesso avrebbe sparato a un pilota greco se la Turchia avesse subito attacchi.

https://www.balcanicaucaso.org/aree/Turchia/Grecia-e-Turchia-machismo-nel-Mediterraneo-orientale-204699

https://www.google.com/maps/@37.6548327,21.8036609,5.75z

Spagna

Fonte: Thomas Fazi

Interessantissimo estratto di un articolo dell’intellettuale socialista spagnolo Manolo Monereo, da cui si evince come la strategia del “vincolo esterno” – cioè la scelta delle classi dirigenti di un paese di ancorare quest’ultimo all’Unione europea con l’obiettivo di delegare a quest’ultima l’imposizione di politiche classiste che quelle classi dirigenti avevano sempre auspicato ma non sarebbero mai riuscite a imporre attraverso i normali canali della democrazia –, che trova un paradossale contraltare a sinistra in quello che potremmo invece chiamare il “complesso” del vincolo esterno – cioè l’idea che il paese abbia bisogno della UE per rimanere nel consesso delle nazioni civilizzate e nella fattispecie per arginare “i nazionalisti” –, non sia un problema solo italiano:
«L’europeismo delle destre [spagnole] è singolare. Non hanno mai avuto difficoltà ad accettare un ruolo dipendente e subordinato della Spagna nell’Europa a trazione tedesca. Lo vedevano come inevitabile e necessario: perché il loro problema era lo stesso di quello del PSOE: controllare il conflitto sociale, neutralizzare il sindacalismo di classe, ridurre il peso politico del PCE e di Izquierda Unida. Il trattato di Maastricht, l’Unione economica e monetaria, era la grande opportunità per disciplinare l’economia, imporre la camicia di forza al movimento operaio e delegare alla UE le decisioni economiche fondamentali. Cedere sovranità per conservare più potere sulle classi popolari del proprio paese.
L’Unione europea – diciamolo senza eufemismi, l’Europa tedesca – riscuote il consenso totale del blocco di potere che domina la Spagna. Il suo carattere di classe è chiarissimo. I tre grandi attori della vita politica spagnola, le destre, i socialisti e i nazionalisti, condividono quella che Miguel Herrero ha definito la “sindrome di Vichy”, vale a dire delegare a una terza parte (la Germania hitleriana) la funzione di decidere un conflitto interno: “l’essenza di Vichy non fu altro che la collaborazione con la potenza occupante perché questa facesse il lavoro sporco che gran parte della destra francese (e anche gran parte della sinistra) avrebbe desiderato fare, ma non osava fare da sé”.

Continua su https://www.ariannaeditrice.it/articoli/il-complesso-del-vincolo-esterno

Libano

La formazione del Grande Libano consiste nel tracciare, nel territorio del caduto Impero Ottomano, un confine che separa uno stato siriano da un altro libanese annesso alla vecchia moutassarifiya (collegio elettorale autogestito nell’impero ottomano) del Monte Libano, Beirut, le regioni di Tripoli, Akkar, Hermel e Bekaa, così come Rachaya, Hasbaya e il Libano meridionale. Questa rotta era stata voluta dal patriarcato maronita preoccupato per la “viabilità” del futuro Stato libanese, che non poteva essere assicurata senza le risorse agricole dei territori così annessi.

Così in Libano, dal 17 ottobre 2019, una potente mobilitazione popolare mira a porre fine al confessionalismo politico messo in atto con l’aiuto della Francia per garantire la sostenibilità della salvaguardia i suoi interessi.

Prima di sbarcare a Beirut per la seconda volta in un mese, il signor Macron ha preso perniciosamente la precauzione di inviare la sua “road map” ai leader libanesi con la sua paga per, presumibilmente, dare al paese un’ultima possibilità. prima che affondi.

Come previsto, manca di fantasia e audacia. Ci vogliono solo le direttive del Fondo monetario internazionale. Privatizzazione eccessiva di tutti i settori chiave dell’economia, a cominciare dall’elettricità, accompagnata dalla ristrutturazione del debito. Il tutto basato su riforme pseudo politiche che garantiscono la sostenibilità di una condivisione del potere tra i leader delle diverse comunità confessionali, rinnovando così un sistema centenario e fonte di tutte le crisi che regolarmente scuotono il Paese.

https://www.controinformazione.info/il-significato-del-ritorno-di-macron-in-libano/