Se pensiamo che il segno distintivo del controllo militare imperialistico è la presenza di basi miltari al di fuori del proprio territorio, è utile ricordare che i paesi da noi descritti come proverbialmente aggressivi e guerrafondai (Russia, Cina, Iran, Corea del Nord) possiedono tutti assieme una manciata di basi militari extraterritoriali (6 la Russia, 4 la Cina, tutte in paesi loro prossimi). Gli USA da soli possiedono invece oltre 800 basi militari extraterritoriali, distribuite su tutti i continenti.
Infine, come impeccabilmente documentato da Daniele Ganser (ne “Le guerre illegali della NATO”), dopo la caduta dell’URSS, la Nato, non si è limitata ad espandersi massivamente, in particolare verso Est, ma è intervenuta ripetutamente con iniziative di aggressione verso paesi terzi (iniziative non difensive, in violazione della funzione originaria dell’alleanza).
Ed è per queste, e altre, ragioni che sarebbe utile smettere di continuare a scandalizzarci della pagliuzza nell’occhio altrui senza notare il trave nel nostro.
Da occidentali spiace dirlo, ma nonostante il profluvio di autoassoluzioni hollywoodiane, da tempo agli occhi del resto del mondo gli USA appaiano come il bullo del quartiere e la Nato come la sua gang.
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La posizione della Cina sulla soluzione politica della crisi ucraina”: così si intitola il documento in dodici punti presentato questa mattina dal Ministero degli Esteri di Pechino. Che in realtà non contiene concetti che non siano stati già espressi molte volte in questo anno di guerra, nelle dichiarazioni della diplomazia mandarina, nelle parole di Xi Jinping e in altri documenti già pubblicati lo scorso anno. Più che un piano di pace vero e proprio si tratta di un documento generale che riassume e ribadisce la posizione cinese. Dove sono presenti concetti cari agli ucraini (rispettare la sovranità di tutti i Paesi), ma anche cari a Mosca (la sicurezza di un Paese non sia a spese di altri) e stoccate a Stati Uniti e Nato, che Pechino continua a considerare le vere cause dell’inizio del conflitto (“la sicurezza di una regione non dovrebbe essere raggiunta rafforzando o espandendo i blocchi militari”). La proposta evita di affrontare la questione del territorio conquistato e occupato dalla Russia in Ucraina.
La conformazione del contesto strategico renderebbe quindi necessaria l’adozione di una linea operativa che miri ad incentivare la disponibilità dei contendenti a partecipare al tavolo delle trattative. Ventilare un allentamento delle sanzioni potrebbe risultare la chiave di volta per conquistare il favore della Russia, mentre per convincere l’Ucraina si parla apertamente di paventare un’interruzione del sostegno sia militare che finanziario. Esattamente la direzione in cui sembrerebbe essersi mossa di recente la Casa Bianca, che stando alle confidenze rese a «Reuters» da una fonte anonima interna agli “apparati” statunitensi avrebbe comunicato a Kiev che il supporto e le risorse degli Stati Uniti non sono illimitate. «Questa guerra dovrà finire ad un certo punto. E tutti vorremmo che finisse il prima possibile», avrebbe dichiarato il funzionario.
Parole significative, che illuminano di una luce particolare le rivelazioni – smentite da tutti i diretti interessati – formulate settimane addietro dal quotidiano svizzero «Neue Zürcher Zeitung», secondo cui verso la metà gennaio il direttore della Cia William Burns avrebbe presentato a Kiev e Mosca un piano di pace implicante la cessione alla Russia del 20% del territorio ucraino (l’intero Donbass, all’incirca) in cambio della cessazione delle ostilità da parte del Cremlino. Secondo la pubblicazione elvetica, la proposta sarebbe incorsa in un sostanziale fallimento a causa della indisponibilità dell’Ucraina ad accettare mutilazioni territoriali, e della certezza di poter conseguire un successo sul campo di battaglia riposta dalla leadership russa.
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