di Carlo Bertani
Ora che abbiamo chiarito la Geografia dei luoghi, dobbiamo fare anche un salto nel tempo per incontrare Bernardo P. (taceremo il cognome per non irritare qualche vivente) all’inizio del secolo. Il Novecento, ovviamente.
Bernardo si sente stretto in quel luogo gelido: lavorare tutta la vita nei boschi a fare il taglialegna? Oppure a rimestare corteccia di castagno nelle vasche della fabbrica di tannino? No, Bernardo ha coraggio ed inventiva: S. Giustina gli va stretta, l’America è là che aspetta ed un giorno s’imbarca da Genova su un “vapore”.
Una storia banale, come tante, all’apparenza: se non esistessero i cercametalli e le vicende nascoste nei meandri della terra.
Bernardo giunge in una New York in fermento: si costruisce di tutto, dalle case ai grattacieli, dalle gallerie ai ponti e non gli è difficile trovare un posto come manovale.
Così, lavora duramente nei cantieri con tanti altri italiani e mette da parte, come un certosino, le paghe settimanali perché Bernardo vuole tornare: al paese ha lasciato la fidanzata e, si sa, le fidanzate non aspettano troppo, rischiando di divenire zitelle nell’attesa di un evento lontano.
Un giorno come un altro trova un pezzo di giornale e riesce a capire che è in atto la più folle corsa del secolo: tutti vanno nel Klondike, su al nord, in Canada, perché lassù pare che l’Oro spunti come i funghi sotto i castagni e la gente si riempie le tasche.
Ci pensa, ci medita poi – tanto un lavoro da manovale si trova sempre, avrà concluso – parte.
Le giornate in treno sono lunghe e fredde: bisogna fare in fretta prima che l’Estate cali, che il gelo del Polo s’impadronisca delle foreste. E dell’Oro.
Giunge a Dawson una mattina di chissà quale anno e subito parte per le immense foreste dove, i fiumi che le attraversano, nascondono il sogno, l’incubo, la speranza.
Non sappiamo quanto tempo vagò per le foreste, ma Bernardo va “a correggere la fortuna” – come molti anni dopo un altro ligure, De André, avrebbe messo in bocca ad un viados brasiliano in Princesa, storie d’emigranti anche quelle – con determinazione, con coraggio, con convinzione. E trova, finalmente.
Cosa trovò e, soprattutto, quanto trovò è un segreto custodito ancora oggi dai nipoti: ma trovò qualcosa di consistente, al punto da convincerlo a tornare a New York e ad imbarcarsi nuovamente per l’Italia. Majin (Maria o Marina, in ligure) mica aspetta per sempre.
Tornato che fu, una notizia lo colse: l’arciprete di Albisola aveva messo all’incanto una collina, proprio dove sto posando i piedi oggi.
Albisola, all’epoca, era un grande, immenso orto che sfamava le popolazioni ben oltre Savona, fino a Genova con fagioli e zucchette, pomodori e peperoni d’Estate spinaci e cavoli d’Inverno, fave e piselli in Primavera, insalate tutto l’anno: “turismo” era un termine addirittura sconosciuto nella lingua dell’epoca. Al più, “viaggiatore”.
Le donne imbarcavano su delle specie di gondole (per remare da sole) le ceste di verdura e così attraversavano il breve braccio di mare che le divideva da Savona: la galleria l’avrebbe portata il fascismo. Gli uomini seguivano identici percorsi con la carbonella, per alimentare le cucine della città borghese oppure legna, vino e grano.
Ancora in tempi recenti (vale a dire a memoria degli attuali vecchi) veniva “U Biundin” (Il Biondino) dapprima con un cavallo e poi con un rombante e puzzolente autocarro da Genova, riempiva sacchi e ceste di fagiolini, fagioli, zucchette e le profumatissime pesche d’Albisola per il famoso mercato orientale di Genova (quello dove furono registrate le voci dei mercanti, al temine della canzone “Creuza de mä”).
Avere della terra, all’epoca, significava ricchezza: nessuno, allora, pensava alla speculazione edilizia semplicemente perché non esisteva.
Non sappiamo come Bernardo tradusse la pepita in denaro: immaginiamo lunghe trattative con gli orafi dell’epoca, obiezioni sulla purezza del materiale, contro-obiezioni con offerte subito proposte ad un altro orafo (così il primo veniva a saperlo) finché la trattativa ebbe buon fine e Bernardo incassò il denaro.
Quanto?
Non lo sappiamo, perché la famiglia custodisce gelosamente il segreto: quanto pesava la pepita?
L’unica risposta veritiera è che la pepita “pesava” quanto la collina che osservate nell’immagine: anzi, l’assenza del grandangolo la penalizza un po’, perché s’estende ancora verso destra. Non dobbiamo, però, fare valutazioni col metro odierno: all’epoca, era terreno agricolo e basta.
Passarono gli anni e nacquero i figli, tanti: sulla collina si coltivava ogni metro quadrato e, da Novembre in poi, si spremevano le olive e si faceva l’olio con il procedimento antico, vale a dire macina a pietra e torchio. Mica viti senza fine e centrifughe, come oggi.
Man mano che i figli crescevano e si sposavano si costruiva una casa: tutto fatto in famiglia, ovviamente, perché il legname veniva dai boschi di S. Giustina, la sabbia e le pietre dal fiume.
Poi venne la guerra che sfoltì un poco il gruppo dei fratelli: Russia ed Albania vollero il loro tributo di sangue e Bernardo questa volta pagò per la Patria, per il Duce e per il Re ed Imperatore, di un Impero che si dissolveva come neve al sole sotto i colpi delle armate britanniche.
Tutto finì e, sulla collina, si contarono i sopravvissuti e si ridistribuirono le case, prima di farne altre: uno dei figli volle tentare l’avventura paterna – questa volta in Argentina – ma non ebbe egual fortuna: finito nel turbine dell’instabilità politica argentina del dopoguerra, tornò con la coda fra le gambe dal padre senza un soldo, con una moglie dai tratti indios ed una vagonata di figli che parlavano spagnolo.
Majin, negli ultimi anni di vita, quando Bernardo se n’era già andato, osservava la collina coi suoi figli nelle loro case che s’industriavano nell’Italia del “miracolo economico”: chi scelse di lavorare come muratore, andava per sei mesi all’estero poi tornava e raccontava storie incredibili di tigri ed elefanti. Portava alla moglie una scatoletta di legno di sandalo e questa ricambiava: quando il marito ripartiva, il pancione era già bello tondo.
Chi invece s’inventò le attività più strane: uno, addirittura, varò una piccola fabbrica di varechina. Poi il solito: muratori, idraulici, falegnami…quindi i figli crebbero ed i genitori se n’andarono anch’essi…ed oggi chi fa un mestiere sopravvive, chi ha scelto una laurea ha dovuto emigrare. Se è stato fortunatissimo Genova, solo fortunato Milano o Torino…per gli altri…Colonia, Dusseldorf, Parigi…l’Oro della collina torna ad espandersi per il mondo.
Bernardo viene appena ricordato dai nipoti, i pronipoti non sanno più che faccia avesse se non quella della foto sulla lapide, al cimitero, e di Majin si ricorda una frase che è lo stereotipo delle madri italiane. Guardava la collina, Bernardo e poi, pensando ai figli, sospirava: «Mia, Bernardu, se i tegnimmu come i sun» (Sai, Bernardo, ce li teniamo come sono).
La collina, per ora, ha resistito all’attacco dei banchieri: si difende con l’auto-produzione come solo il popolo italiano sa fare, usando i soldi di stipendi e pensioni solo per pagare le mille gabelle che li taglieggiano. Intanto, si contano i chili d’olio ed i quintali di patate, come un tempo: roba vera, che ti fa vivere, non fuffa.
Questa storia è dedicata ai vecchi politici, perché si vergognino d’aver sodomizzato gente del genere ed ai nuovi, quelli di Grillo – che imparino qualcosa – prima di pensare subito alla notorietà ed ai talk-show.
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