Le grandi aspettative alla prova dei fatti

Tuttavia, è importante sottolineare come questa narrazione sia spesso il frutto di una percezione indiretta e astratta di “mancanza di meritocrazia”, senza che le persone abbiamo sperimentato direttamente episodi di nepotismo.

Un aspetto fondamentale sottostante alle rappresentazioni positive dei paesi di destinazione e a quelle negative dei paesi di origine è che esse si configurano come una retorica generalizzata, condivisa egualmente da soggetti con alta e medio-bassa qualificazione, nonostante i vantaggi della migrazione, per questi ultimi, siano tutt’altro che scontati.

Le grandi aspettative che gli emigranti hanno non appena giunti nei paesi di destinazione trovano spesso un riscontro positivo tra quanti avevano già un’offerta di lavoro soddisfacente prima di emigrare. È questo un caso piuttosto comune tra i laureati, che prediligono canali istituzionali di ricerca del lavoro, soprattutto tra quanti avevano già avuto un’esperienza all’estero, ad esempio un Erasmus durante gli studi universitari. Ma in molti altri casi dopo la partenza non sono infrequenti esperienze di lavoro nell’economia informale, in settori poco qualificati e in condizioni di lavoro disagevoli. È questa una situazione molto comune tra i migranti con basso titolo di studio, per i quali svolgono un ruolo decisivo i contatti informali con amici e parenti che sono già emigrati in precedenza, sia nella decisione di emigrare che nella ricerca di lavoro una volta emigrati.

Tuttavia, anche occupazioni non migliori di quelle che i migranti a medio-bassa qualificazione avrebbero potuto trovare in Italia sono riviste alla luce della narrazione positiva che circonda i paesi di destinazione. Esse, infatti, sono interpretate come “utili esperienze” nella speranza di poter successivamente migliorare la propria condizione, in contesti come Londra e Berlino, ricchi di opportunità e in cui i datori di lavoro favoriscono il “talento”.

Per saperne di più

Gemm project – growth, equal opportunities, migration and markets

G. Assirelli, C. Barone e E. Recchi (2019). “You better move on”: Determinants and labor market outcomes of graduate migration from Italy. In International Migration Review 53(1): 4-25.

G. Ballarino, C. Barone e N. Panichella (2016). Origini sociali e occupazione in Italia. In Rassegna Italiana di Sociologia 57(1): 103-134.

C. Barone e R. Guetto (2016). Verso una meritocrazia dell’istruzione? Inerzia e mutamento nei legami tra origini sociali, opportunità di studio e destini lavorativi in Italia. In Polis 30(1): 5-34.

D. Coletto e G. Fullin (2019).Before Landing: How Do New European Emigrants Prepare Their Departure and Imagine Their Destinations? In Social Inclusion 7(4): 39-48.

I. Dimitriadis, G. Fullin e M. Fischer-Souan (2019).Great Expectations? Young Southern Europeans Emigrating in Times of Crisis. In Mondi Migranti 3: 127-151.

G. Fullin, E. Reyneri (2015). Mezzo secolo di primi lavori dei giovani. Per una storia del mercato del lavoro italiano. In Stato e Mercato 105(3): 419-468.

ISTAT (2021). Iscrizioni e cancellazioni anagrafiche della popolazione residente, 2019. Statistiche Report.

U. Trivellato (2019). Per troppi giovani la buona occupazione è diventata un miraggio. Evidenze da uno studio pilota. Neodemos.

Piccola e Media industria

Antonio Boncristiano Allora, a tagliare col machete gli argomenti si fa un giustissimo grido di indignazione ma non si risolve nulla. E nemmeno le separazioni manichee. Facciamo un esempio. Reale. Un piccolo imprenditore da generazioni produttore di strumenti hi tech, una cinquantina di famiglie da mantenere. Il prodotto costa un 10% più della concorrenza di multinazionali francesi e giapponesi, ma tiene botta grazie alla qualità tanto da essere il terzo leader mondiale. Le multinazionali delocalizzano in Cina, ormai 25 anni fa e i loro prezzi diventano 1/20 di quelli dell’azienda. Per non lasciare le famiglie sul lastrico, portano più persone possibili in prepensionamento, portano i macchinari in Cina riuscendo a tenere parte della produzione in Italia e mantenendo ancora una ventina di famiglie. Da allora fanno i pendolari Cina/Italia con sacrifici e iniziative differenziate per sbarcare il lunario. Ma non sanno mai se il giorno dopo ci saranno ancora. Non è la gran parte della nostra imprenditoria il problema ma la globalizzazione selvaggia. Ora, con quali strumenti efficaci si può vincere? Argomento complesso che non ho modo di sceverare ora, ma qualunque possa essere la strada che si percorre o che si pensi sia la migliore da fare la condizione è solo una: che conduca alla vittoria. Perché a questo gioco per la nostra Nazione l’importante non è partecipare, è non essere cancellati dalla faccia della terra.
Anna Rossi
Anna Rossi Antonio Boncristiano Sappiamo che la composizione dei processi produttivi è stata modificata e che gran parte di essi attraverso l’automazione si sono trasformati da “labour intensive” a “capital intensive”. Di fatto non sono più le qualità e la formazione degli operai delle fabbriche a fare la differenza nelle catene di montaggio ma il livello di automazione del ciclo produttivo. Questo dovrebbe accadere anche nelle realtà più piccole ma sappiamo che gli investimenti in innovazione nelle Micro e Piccole Imprese sono lentissimi e talvolta quasi inesistenti. La resistenza di vecchi modelli o la scarsa formazione delle nuove generazioni che ereditano le aziende sono determinanti per la stagnazione e la liquidazione della produttività. Seppur si continua a riconoscere alla produzione artigianale le caratteristiche di unicità e qualità del prodotto, il quale non si presta a fasi di lavoro standardizzate il deficit da credito e la lentezza dei processi produttivi e la debolezza dell’offerta sul mercato globale spesso di prodotti medio-alti (non altissimi) sono la causa dell’usura imprenditoriale. Questa premessa credo focalizzi il problema di sopravvivenza della piccola imprenditoria relegata spesso al terziario e destinata a scomparire ….MA se è vero che con la digitalizzazione e l’automazione dei processi produttivi ed il networking, l’impresa guadagna competitività, efficienza ed efficacia e i nostri prodotti tirano ancora nonostante standard produttivi ad alto costo e scarsa innovazione occorrerà CONSORZIARSI sotto cartelli dedicati. Le aziende familiari devono consorziarsi in villaggi produttivi di riferimento in grado di ricevere commesse e cooperare nella loro soddisfazione. Non vedo altra via. La robotizzazione è già in grado di produrre simulando il “difetto” ….occorre andare oltre. Questo può essere portato avanti solo con politiche statali mirate e protese a/verso una forte spinta evolutiva. Il lavoro dovrà acquisire nuove specializzazioni a ridosso dell’implementazione e soprattutto a fianco di una nuova forma “comunale” della produzione dovrà esserci una rete di servizi strettamente dipendente dai consorzi tanto da poter controllare il viaggio del prodotto dalla sua creazione alla sua destinazione finale. Dipartimenti di manutenzione “qualità e controllo” non possono rispondere a approssimazioni dettate dalla corsa alla sopravvivenza di profitti stringati. Si può fare meglio ma non da soli. Ci vogliono piani di sviluppo rapidi e lungimiranti. Il miglior investimento è la forza del singolo che opera in sinergia con altri singoli. Insieme si può. Il mercato del futuro non aspetta altro. E’ innegabile che l’Italia ha un’importante deficit di istruzione e conoscenza rispetto ai concorrenti internazionali che, sicuramente, ha avuto degli effetti negativi determinanti anche sulla performance delle imprese, in particolare delle PMI. Ecco di nuovo il problema della formazione….e la riconversione delle PMI passa anche da questo ultimo punto da me espresso. Chi spedisce all’estero i nostri migliori giovani formati è un criminale a l’ennesima potenza…oggi più che mai!

Hartz IV

Hartz IV: questa marcatura sociale deriva dal processo di deregolamentazione del mercato del lavoro, detto Agenda 2010, realizzato tra il 2003 e il 2005 dalla coalizione tra il Partito Social Democratico (SPD) e i Verdi del cancelliere Gerhard Schröder. Chiamato con il nome del suo ideatore, Peter Hartz, precedente direttore del personale di Volkswagen, il quarto pacchetto di riforme unisce gli aiuti sociali e le indennità per i disoccupati di lunga durata (senza lavoro da più di un anno) in una allocazione forfettaria unica, versata dal Jobcenter. L’ammontare, piuttosto ridotto, di 409 euro al mese nel 2017 per una persona sola, dovrebbe motivare il ricevente (ribattezzato “cliente”) a trovare un impiego il più velocemente possibile. Sia questo mal remunerato o poco conforme alle competenze. La sua attribuzione è condizionata da un regime controllato tra i più cogenti d’Europa. Alla fine del 2016, la rete Hartz IV inglobava quasi 6 milioni di persone, di cui 2,6 milioni di disoccupati ufficiali, 1,7 milioni non ufficiali usciti dalle statistiche grazie alla trappola dei “dispositivi di attivazione” (formazioni, “coaching”, impieghi a 1 euro, mini jobs, ecc.) e 1,6 milioni di bambini associati a famiglie riceventi il contributo forfettario dei Jobcenter. In una società fondata sul culto del lavoro, queste persone sono spesso descritte come un gruppo di oziosi e anche peggio.

Questo mostro burocratico suscita molto sconforto e sentimento di impotenza presso i disoccupati, che lo percepiscono, non senza ragione, come una minaccia. Una signora sulla sessantina si avvicina con passo esitante. Sembra molto imbarazzata di presentarsi a sconosciuti. La sua pensione di 500 euro mensili non è sufficiente per vivere, perciò riceve un contributo dal Jobcenter. Poiché fatica ad arrivare a fine mese, da poco è impiegata a tempo parziale (“mini job”) come donna delle pulizie per una casa di cura, che le assicura un salario netto mensile di 340 euro. “Rendetevi conto” , afferma la signora con voce agitata, “che la lettera del Jobcenter mi comunica che non ho dichiarato i miei redditi e che devo rimborsare 250 euro. Ma quei soldi non li ho! Inoltre, ho dichiarato tutto dal primo giorno. Ci deve essere un errore… .” Un membro del gruppo la prende da parte per darle i suoi consigli: a chi rivolgersi per un ricorso, o per sporgere denuncia, etc. Talvolta il furgone serve come rifugio per discutere dei problemi lontano da sguardi indiscreti. “È uno degli effetti di Hartz IV”, osserva la signora Freitag. “La stigmatizzazione dei disoccupati è così forte che molti provano vergogna a parlare della propria situazione davanti ad altre persone.

estratto da http://vocidallestero.it/2017/09/07/le-monde-diplomatique-linferno-del-miracolo-tedesco/

I nuovi poveri

Der Spiegel, 14 novembre 2016

È in costante crescita il numero di cittadini europei che, nonostante abbiano un impiego a tempo pieno, sono a rischio povertà. Queste sono le conclusioni di un recente studio del “Social Justice Index 2016”, finanziato dalla Fondazione Bertelsmann. Lo scorso anno questa percentuale è salita al 7,8 per cento. Ciò significa che milioni di persone nell’UE sono sottoposte a un reale rischio di povertà, pur potendo contare su un’occupazione a tempo pieno. Tre anni fa questa percentuale era del 7,2 per cento.

Anche se alcuni paesi dell’UE stanno mostrando una lenta ripresa rispetto alle conseguenze della crisi economica e finanziaria, lo stesso non si può dire dell’impatto che i mutamenti del mercato del lavoro hanno avuto sulla vita delle persone. Sulla base di 35 criteri, i ricercatori di “Social Justice Index” analizzano ogni anno sei aree di studio, tra cui povertà, istruzione, occupazione, salute e giustizia intergenerazionale.

Secondo il documento, un cittadino europeo su quattro è alle soglie della povertà o a rischio di una qualche forma di esclusione sociale: in totale si parla di oltre 118 milioni di persone. Per i ricercatori le ragioni vanno ricercate in particolare nella crescita dei settori a basso salario.

L’aumento dei cosiddetti “lavoratori poveri”, ovvero delle persone con un’occupazione ma a rischio di povertà, preoccupa moltissimo gli autori della ricerca. “Una crescente percentuale di persone alle quali non basta un lavoro per vivere è qualcosa che mina l’intera legittimità del nostro ordine economico e sociale”, ha detto il Presidente della Fondazione, Aart De Geus.

Non è solo la povertà a essere identificata come una delle problematiche fondamentali in Germania, da parte degli autori, ma anche la scarsa permeabilità sociale prodotta dal sistema educativo. Il numero di persone che sono occupate a tempo pieno ma sulla soglia della povertà in Germania è aumentato dal 5,1% del 2009 al 7,1% del 2015. Questo pone la Germania al settimo posto in Europa, nonostante la Repubblica Federale sia la più grande potenza economica del vecchio continente. Il primo posto è occupato dalla Svezia, mentre il fanalino di coda resta la Grecia.

In particolare nell’Europa meridionale sono i giovani a rischiare di essere lasciati indietro. In UE il 27% dei minori (sotto i 18 anni) sono a rischio di povertà o esclusione sociale. In Grecia, Italia, Spagna e Portogallo addirittura un bambino su tre è a rischio di povertà.

http://vocidallestero.it/2016/12/01/der-spiegel-118-milioni-di-cittadini-europei-minacciati-dalla-poverta/

Non è un caso

Come fa giustamente notare Blondet il più recente attentatore diceva di vivere sotto Hartz IV, vale a dire l’ultimo aggiornamento delle misure della commissione tedesca sul lavoro:

L’ammontare originariamente previsto per la prestazione normale dell’ALGII secondo dichiarazioni di Peter Hartz era fissato a 511 Euro mensili e quindi largamente al di sopra del sussidio sociale. Inizialmente per gli indigenti che avevano esaurito il diritto all’indennità di disoccupazione veniva pagato un supplemento che nel primo anno di percezione della ALGII arrivava a 160 €, e nel secondo anno fino 80 €. Questo supplemento dal 1º gennaio 2011 è stato abolito completamente senza essere sostituito”.

In Italia abbiamo incassato il Job Act che non prevede sussidio alcuno (ma da noi si vive ancora in famiglia) ; oggi però è stato firmato un accordo tra governo e confindustria per inserire ” i rifugiati” nel lavoro.

Chissà cosa si urlerà da noi nel prossimo attentato “terroristico”?

L’opposizione “spettacolo”

In Francia anche oggi si sono svolte le proteste di massa contro le riforme del diritto del lavoro (la cosiddetta “la legge del Homri”) voluta dal Governo Hollande-Valls. Le proteste e scioperi continuano da circa due mesi. Nelle più grandi manifestazioni tenutesi sulle strade in tutta le principali città della Francia, hanno partecipato, secondo varie stime, da almeno 400 mila a mezzo milione di persone. Non succedeva dai tempi del ’68 parigino. Attualmente sono bloccate le più importanti aziende, i trasporti, buona parte dei servizi pubblici e persino le centrali elettriche. Il blocco delle raffinerie ha portato ad una carenza di carburante. I dipendenti in sciopero del NPP hanno bloccato le strade, sono bloccate le imprese di importanza strategica dell’industria della difesa. Si rende evidente la posizione del partito socialista contro i lavoratori All’inizio di quest’anno, il partito socialista al governo ha proposto di liberalizzare le leggi sul lavoro, in pratica una forma di “Jobs Act” alla francese: semplificare la procedura per il licenziamento dei lavoratori e costringerli a lavorare con più ore per meno salario.  Una forma di legalizzazione del lavoro precario in salsa francese. Una legge, dicono quelli del Governo, inevitabile per “essere al passo” con il mondo globalizzato. I datori di lavoro saranno ora in grado di aumentare l’orario di lavoro dei dipendenti e ridurre il pagamento degli straordinari. Il punto centrale del disegno di legge è quello di ridurre il costo del lavoro per causa della crisi economica. Si vuole nascondere Il problema paneuropeo Le proteste contro la legge anti-operaia dimostrano la crisi delle forze della sinistra in tutta Europa. Il presidente francese Francois Hollande è un tipico rappresentante della versione neo liberista della “sinistra europea”. A tal proposito, il fulcro della sua politica non è una lotta per i diritti di lavoro di classe e per la giustizia sociale, ma a favore della globalizzazione, del “progresso” e per la distruzione dei valori tradizionali (della famiglia, dell’individuo e dell’etica). Piuttosto che sostenere i diritti dei lavoratori, i socialisti francesi, come la maggior parte dei loro omologhi in Europa, si dedicano a sostenere i diritti dei i migranti, dei gay, dell’aborto libero, della educazione transgender, oltre agli interessi delle grandi imprese e dei potentati finanziari. Una tendenza comune in Europa come insegna l’esperienza italiana del PD di Renzi e soci. Durante la presidenza del Francois Hollande la disoccupazione in Francia ha raggiunto punte senza precedenti – più del dieci per cento (molto più del suo predecessore di destra – Nicolas Sarkozy, repubblicano). Ma alla fine di Gennaio Hollande è stato costretto a imporre provvedimenti di emergenza per causa della situazione economica nel paese, sullo sfondo di un grande disagio sociale in crescita. Le alternative al mondialismo neoliberista di Hollande Hollande e il Partito socialista al governo stanno rapidamente perdendo popolarità anche tra le forze di sinistra. L’incapacità di affrontare i livelli critici della disoccupazione, di difendere i diritti della classe operaia, di garantire la sicurezza del paese (gli attacchi il 13 novembre a Parigi), la totale subordinazione del Governo francese alla politica USA (sanzioni alla Russia) ed appoggio all’Arabia Saudita, tutti questi fattori mettono in dubbio la legittimità del partito socialista. Il consenso di Francois Hollande nel paese ha raggiunto un livello critico – il 14%. Tra gli esponenti della sinistra è venuto alla ribalta il leader del partito di sinistra Jean-Luc Mélenchon, che ha partecipato attivamente alle proteste. Egli sostiene l’opposizione alla legge sul lavoro per la tutela degli interessi della classe operaia francese e si è dichiarato per la revoca delle sanzioni contro la Russia ed è contro la politica pro-americana di Hollande. I rappresentanti dei liberali di sinistra, in particolare la “Nuova sinistra” e “Verdi”, che sono all’attenzione dei media, sono in realtà legati al finanziere George Soros, e stanno cercando di utilizzare le proteste a loro vantaggio. Hanno organizzato un movimento “Nuit debout” (la notte in piedi), simile a ideologia e sistema dell’organizzazione come “Occupy Wall Street”,  che sembra avere tutti i connotati di una “fake opposition”. Strategia del sistema: oscurare l’opposizione del Front National e la sua crescente popolarità (sottolineatura nostra)

Allo stesso tempo, si assiste ad un processo di “spostamento a sinistra” in campo economico, circa le regole tradizionali del Front National.  La leader del partito, Marine Le Pen, è oggi l’esponente politico più popolare del paese. Il suo rating il 30%. Dato che la probabilità di una ascesa dell’estrema sinistra è di fatto marginale, le possibilità di Mélenchon di arrivare al potere sono basse (ora la sua valutazione si trova alla pari con il presidente attuale), l’unica forza politica che può veramente proteggere gli interessi delle persone che lavorano, è il Fronte nazionale francese. Il Front National è anche l’unica forza che si batte per un cambio di paradigma della politica francese in relazione all’Unione Europea, con richiesta di uscita dal sistema euro, come anche in relazione alla politica estera del paese, con la proposta fatta dalla Le Pen di affrancare la Francia dalla subordinazione agli USA ed uscita dalla NATO. Queste posizioni sono però giudicate molto pericolose da vari analisti che prevedono la possibiltà di una coalizione di tutte le altre forze politiche, con il supporto di tutti i grandi media, per sbarrare la strada all’avanzata della Marine Le Pen ed il suo Front National. Una cosa è sicura: l’oligarchia economica che sovrintende al Governo Hollande-Valls non rimarrà inerte a guardare l’ascesa trionfale della Le Pen verso la Presidenza, proveranno tutti i marchingegni, leciti e non leciti, per fermare la sua corsa. Questo significa che si potrà assistere a campagne di diffamazione, come alla ripresa degli attentati terroristici per creare un clima di paura nell’opinione pubblica che favorisca una restaurazione dell’asse politico-economico oggi al potere.

L. Lago in http://www.controinformazione.info/la-sinistra-mondialista-in-francia-contestata-dal-popolo/

Globalizzazione

L’ offerta sensazionale è £ 5,99 per un paio di “jeggings” – leggings attillati che assomigliano ai jeans. L’etichetta parla di una “moda stile jeans”, in tessuto di cotone (77%), con elastico in vita; un solo bottone, una zip YKK, due tasche posteriori e due anteriori, cuciture senza rivetti. Niente ricami sulle tasche.

Tutto questo è importante. Ogni ulteriore dettaglio si aggiunge al prezzo del prodotto finito. La ripartizione dei costi in una fabbrica di jeans del Bangladesh pubblicata da Bloomberg nel 2013 indicava il prezzo di una cerniera a 10p, un bottone a 4p e i rivetti a 1p ciascuno. Ricamo aggiunto altri 9p, le tasche 6p e le etichette 7p. A questi margini, ogni singolo penny conta, quindi non è una sorpresa scoprire che i jeggings sono ridotti all’osso.

Ma il Boyfriend Jeans, a £ 7,99, sembra essere il vero affare: quattro tasche, più una strana piccola taschina all’interno della tasca anteriore destra (per un orologio, a quanto pare). Ha sei passanti per la cintura, cinque rivetti, tre bottoni e una zip YKK. Realizzato in cotone 100% , l’elemento più costoso del processo produttivo: da £ 2.30 a £ 2.50.

C’è anche da pagare il filo per le cuciture, che potrebbe fare al più 19p, e il prodotto finito dovrà essere lavato, quindi se stiamo cercando di fare un prezzo arriviamo probabilmente a £ 3.90.

Ora dobbiamo mettere insieme questi materiali. Fortunatamente – per l’acquirente – non è poi così costoso.

La maggior parte dei lavoratori nelle fabbriche di abbigliamento del Bangladesh sono donne e la maggior parte sono pagate al salario minimo di 5.300 taka al mese (circa £ 48). Fa 23p all’ora per otto ore, per sei giorni alla settimana. Si tratta di un quinto delle 230 £ al mese stimate dal Asia Floor Wage Alliance come il minimo necessario per un salario di sussistenza nel 2013.

Per ricavare con precisione il costo del lavoro, è necessario sapere quante paia di jeans si producono al giorno. I dati disponibili coprono una vasta gamma: la ricerca in India ha trovato dei lavoratori che in una fabbrica producevano in media 20 paia di jeans al giorno, mentre un altro studio in Tunisia ha trovato una produzione di 33 paia al giorno. Tutto dipende dalla qualità e complessità del disegno. Nel 2010 l’Institute for Global Labour and Human Rights ha esaminato il Bangladesh e ha trovato che una squadra di 25 operai sfornavano 250 paia di jeans all’ora – 10 per lavoratore, o 80 per lavoratore al giorno.

Ciò significa che il salario minimo dovrebbe stare in un range compreso tra 2p e 9p per ogni paio di jeans prodotti, che è sostanzialmente in linea con uno studio del 2011 sulla produzione di abbigliamento in Bangladesh della società di consulenza statunitense O’Rourke Group Partners, che prezzava il costo del lavoro per una polo a 8p.

O’Rourke ha posto i costi totali di fabbrica per la camicia a 41p: Bloomberg ha calcolato che i suoi jeans del Bangladesh costano 56p alla produzione, più 16p di profitto.

Arriviamo a circa 4,50 £. Ma abbiamo ancora bisogno di spedire i jeans, e non ci sono spese di magazzino e tasse portuali, quindi possiamo metterci altri 30p, arrivando fino a £ 4.80. E abbiamo ancora bisogno di trasportarli dal porto al negozio, quindi sono altri 50p. Questo ci dà £ 5.30, ma per finire c’è ancora l’IVA.

Il totale complessivo di £ 6.36 gonfierebbe il bilancio per i jeggings, ma basta usare un po’ meno materiale, ed ecco risparmiato qualche soldo sui bottoni e i rivetti. Questo renderà più veloce la lavorazione, così che scenderà un po’ il costo del lavoro. Potrebbe quasi essere possibile portarli a £ 5,99 o possono anche guidare il mercato in perdita: cosa che accade. I jeans, comunque, mostrano un profitto di £ 1.63.

Ma è qui che viene fuori il potere d’acquisto di Lidl, perché sia i jeggings che i jeans sono importati da intermediari, che vendono al supermercato – rispettivamente OWIM Gmbh, società tedesca, e Top Grade International Enterprise Ltd con sede a Hong Kong, che esportano 30 milioni di pezzi all’anno dal Bangladesh. Sia l’uno che l’altro devono subire dei tagli. Nell’esempio di Bloomberg, l’intermediario ha subito un taglio di £ 2. Qui è chiaramente fuori questione se Lidl stesso ne ricavi un utile. E questa è la realtà di un paio di jeans da £ 5.99: tutti sono spremuti, su tutta la linea.

Nota: Il costo di un paio di jeggins in euro è di circa 7,50; la retribuzione per l’operaia: 23 pence=29 centesimi di euro/ora

http://vocidallestero.it/2016/03/16/come-che-lidl-vende-i-jeans-a-5-99-facile-pagando-la-gente-23-pence-allora/

Conflitti sindacali e teoria dei giochi

L’esempio che vorrei portare alla vostra attenzione è un qualcosa successo nella città nella quale sono cresciuto, Terni, in merito all’azienda che da sola rappresenta/ava il 20% del PIL dell’Umbria.

Brevemente, la proprietà, dopo la svendita I.R.I. di Prodi, è tedesca, Thyssenkrupp, e come in ogni altro settore, la multinazionale arriva in Italia, fa i soldi fintanto che li fa, magari li fa proprio perché non investe o sposta ammortamenti o costi vari ad esercizi futuri (ma questi sono discorsi puramente contabili), e pian piano smobilizza in Italia e sposta tutto (know how, impianti e lavoro) nella nazione di origine o dove la mano d’opera costa meno. Il solito, insomma. In realtà a Terni ci si è messa anche l’Antitrust a togliere speranze all’Italia, rendendo nulla la cessione ai finlandesi Outokumpu (non entro nel merito della decisione; mi limito a constatare che è andata a vantaggio della Germania).

Per farvi un quadro generale della matrice che si stava giocando tra azienda e lavoratori vi dico solo che arriva un nuovo A.D., la Sig.ra Morselli, nota “liquidatrice di grandi Società”. La richiesta dell’azienda è licenziare 500 lavoratori e diminuire le produzioni (che porterà nel lungo periodo ad ulteriori ridimensionamenti). Ovviamente, i lavoratori fanno muro, dato che, considerando anche l’indotto, si sta scegliendo di chiudere una città, forse una regione e, dal punto di vista Italia, di comprare l’acciaio ancor di più dall’estero. La matrice può essere così riassunta:

Se ragionate come sopra, avrete un equilibrio nel riquadro D1 o, al più, nel riquadro A1 (entrambe le parti non cedono o, al più, entrambe cedono), ci saranno comunque dei licenziamenti, ma la città sarà salva, saranno salve le produzioni e il lungo periodo. Ma il gioco non è statico, si evolve. Alla collettività converrebbe porsi nel riquadro C1, e per far ciò dovrebbe intervenire lo Stato, ma lo Stato non può e non vuole, quindi si rimane nel riquadro D1. La Thyssenkrupp, dal canto suo, vorrebbe posizionarsi nel riquadro B1, per chiudere o giù di lì, e per far ciò deve “far cambiare atteggiamento ai lavoratori”, deve abbattere il muro compatto, deve renderli più adattabili alla produzione. Come si fa? Facile, ci si inventa un gioco, un gioco nel gioco, con il silenzio assenso di tutte le parti in causa, in cui la Sig.ra Morselli sta a guardare ed i giocatori sono i lavoratori, gli uni contro gli altri. Vengono offerti circa 80.000,00 € a chi accetta di andarsene volontariamente. Ma solo ai primi 350. Quindi ci saranno, nelle intenzioni dell’azienda, anche 150 persone che se ne andranno senza nulla. Per precisione, si è partiti da una cifra più alta che pian piano si è abbassata, così come è vero che la cifra era base ma poteva essere contrattata dal singolo lavoratore. Quindi dico 80.000,00 € per semplicità, ma anche qui la contrattazione “personale” è stata inserita, così come la discesa dell’offerta all’aumentare dei lavoratori che accettavano conferma che trattasi di gioco. Infatti, più lavoratori accettano, meno necessità c’è di incentivare, dato che l’incentivo ad accettare deriverà dal semplice vederlo fare agli altri, vedere la protesta smontarsi e i 350 “posti” diminuire. Questa è la matrice del nuovo gioco:

Per collegarci alla prima matrice, notiamo che l’unica combinazione del nuovo gioco che non modificherà l’equilibrio in D1 sarà il riquadro D2 (nessuno accetta gli 80.000,00 € e la protesta rimane coesa). Nel momento in cui, però, i “propensi ad accettare” accetteranno, e lo faranno perché la loro strategia dominante è accettare, la protesta si smonterà, ed automaticamente, nella prima matrice, i lavoratori passeranno dal “LOTTA” al “CEDE”, e l’equilibrio dal riquadro D1 al riquadro B1. La Thyssenkrupp ha raggiunto ciò che voleva. Il costo è stato infinitesimale rispetto al loro fatturato. Fine del gioco.

Ricapitoliamo la situazione.

C’è un’azienda che vuole licenziare 500 persone, e i mass media, un po’ per terrorizzare, un po’ a ragione a causa di “Aiuti di Stato” resi illegittimi dalla cooperativa UE e tutto ciò che sappiamo, mancanza di SOVRANITA’ POLITICA in due parole, danno per certo che comunque vada, sia che il singolo lavoratore accetti la buonauscita, sia che non lo faccia, i licenziamenti ci saranno (cioè afferma che l’equilibrio nella prima matrice è B1, non D1). Si spargono le voci, e si sa chi è “l’ultimo entrato”, c’è sempre un ultimo entrato dato che è un concetto relativo, come c’è sempre chi ha necessità, oggi in particolar modo. Quindi ci sarà chi penserà “bhè, me ne vado con 80.000,00 €, meglio di andarsene con un pugno di mosche, tanto qualcuno che li accetterà ci sarà, e di “posti” ce ne sono solo 350!”. Una cosa abominevole. E non parlo del ragionamento dell’impiegato che li accetta, ma di chi pone l’impiegato dinanzi ad una decisione talmente razionale da non credere che si stia parlando di rapporti tra colleghi, di coesione al fine di salvare la fonte di reddito della loro vita. Rompendo la coesione del mondo del lavoro, non solo i lavoratori hanno perso la battaglia, ma si è aperta un’ulteriore ferita sul fianco dell’azienda, l’ennesimo ridimensionamento; ormai la strada è irrimediabilmente in discesa, se non cambia l’Italia.

Questa si chiama teoria dei giochi, ed in questo caso è stata usata contro la collettività, a differenza di come fecero Kennedy e Krusciov, non per il perseguimento dell’efficienza paretiana, ma del mero profitto, non della cooperazione, ma della competizione, nella fattispecie tra lavoro e capitale.

Le 500 unità in meno volute si sono raggiunte grazie a pensionamenti e dirigenti sprovvisti di garanzie. Il governo, noi, da parte sua, nostra, non solo non ha vietato la “proposta indecente”, ma l’ha resa ancora più “allettante”, mettendo sul piatto 2 anni di mobilità e, come sempre e purtroppo oggi giorno, il breve periodo ha vinto sul lungo periodo, l’individualità ha vinto sulla collettività. Alla fine l’azienda è arrivata ad una diminuzione di personale maggiore di quella paventata e tanto combattuta fino al giorno della “proposta indecente”, senza licenziare nessuno, senza sembrare colonialista e con garbo, ci mancherebbe. E’ teoria dei giochi baby!

E’ andata talmente bene alla Thyssenkrupp che già si paventa una riproposizione dello stesso gioco, si partirà da una base di 120.000,00 € (è la nuova cifra di equilibrio per far cedere i lavoratori, più alta perché manca la mobilità ma non il doppio perché tanto il muro compatto non c’è più), con l’intento di dimezzare il personale dell’azienda per poi venderla meglio. Si chiama teoria dei giochi ma usata così è uno stillicidio, di gioco non ha nulla.

Mentre la Sig.ra Morselli sa sicuramente di cosa parlo, mentre la Sig.ra Guidi dovrebbe sapere di cosa parlo, i lavoratori non sanno assolutamente di cosa parlo, non è giusto.

Tutto ciò, però, è perfettamente aderente all’attuale pensiero di quale direzione debba prendere il gioco tra lavoro e capitale, ergo, verso una contrattazione sempre più personale. La storia che la nostra individualità verrà risaltata da una contrattazione strettamente privatistica è falsa, la realtà, quella che conta, è che si cambia gioco, e che il potere contrattuale dei lavoratori è irrimediabilmente annullato.

Oltre al fatto imprescindibile che in questo gioco lavoro-capitale, lo Stato dovrebbe essere il soggetto che, nel momento in cui i giocatori hanno nelle loro matrici degli equilibri di Nash non Pareto efficienti, dovrebbe intervenire, indirizzando l’equilibrio verso il riquadro migliore per la società. Oggi invece si lasciano i giocatori agire, e i giocatori, avendo una visione limitata o distorta della questione, non possono scegliere il meglio per la società. Se Nash ha vinto il premio Nobel per ciò un motivo ci sarà, precisamente l’ha vinto perché ha dimostrato che ci sono degli equilibri che sicuramente si raggiungeranno anche in giochi non cooperativi, in cui i giocatori non si parlano. Il problema è che tale nozione andrebbe usata per il benessere collettivo, perseguendo comunque e sempre la Pareto efficienza per la collettività, e non il mero Equilibrio di Nash, anche quando avvantaggia solo taluni e non la società.

Ma non è un caso se lo Stato non è intervenuto, come non è un caso che si voglia togliere potere contrattuale ai lavoratori al grido che la contrattazione tendente al personale esalterà il lavoratore stesso. Non esalterà proprio nulla, ma disintegrerà i diritti, deflazionerà il lavoro per mancanza di potere contrattuale e di organizzazione.

In merito all’organizzazione bisognerebbe scrivere un articolo apposito, ma la qualità dei sindacati come le malsane idee di “sindacato unico”, credo che contino più di mille parole per attestare l’obiettivo di annullare tale capacità organizzativa, lasciando il lavoratore solo con se stesso.

Così come bisognerebbe scrivere un articolo apposito su tutte le normative che minano il potere contrattuale dei salariati.

Per esempio, nel TTIP, c’è la clausola ISDS, che permetterà alle multinazionali di far causa agli Stati che oseranno difendere il lavoratore! Quindi, tra un po’, anche se il governo vorrà intervenire, dovrà risarcire i danni alla multinazionale, e non interverrà. E il lavoratore sarà sempre più solo con se stesso.

Per esempio, a livello di contrattazione collettiva, e dopo solito “consiglio” europeo, che tutto è tranne un pensiero da buon padre di famiglia, è qualche anno che l’orientamento sta cambiando, ponendo la contrattazione di secondo livello (quella aziendale, tra i lavoratori di un’azienda e la sua proprietà), come preponderante rispetto alla contrattazione collettiva nazionale (quella tra le parti sociali a livello nazionale). E secondo voi, per quante critiche possiamo muovere ai sindacati oggi, avrete più potere contrattuale voi da soli o un sindacato nazionale?

Evitando ulteriori esempi, ma analizzando la visione generale, notiamo che mentre la nostra Costituzione pone la Repubblica Italiana fondata sul lavoro (lato della domanda), e la proprietà privata ammessa ma con funzione sociale (lato dell’offerta), l’UE vede il lavoro come adattabile alla produzione (lato della domanda) e la proprietà pubblica da abolire perché avente funzione sociale (lato dell’offerta), anche se la scusa è la faccia negativa della medaglia, cioè “non abbastanza competitiva”. E quale miglior struttura di contrattazione tra lavoro e capitale può cavalcare l’onda dell’adattabilità alla produzione se non quella personale?

Trattati e Costituzione, finiamo sempre lì. Lavoro adattabile da un lato, Repubblica fondata sul lavoro dall’altro, sono visioni diverse. La visione è diversa perché da un lato abbiamo competizione tra i cittadini, dall’altro abbiamo cooperazione tra i cittadini. E’ UE e non Italia, è Mercato e non Stato.

Per concludere e farvi capire che, da ogni punto di vista, il risultato auspicabile rimane sempre la cooperazione, analizziamo cos’è lo Stato, non istituzione ma insieme di persone, nella teoria dei giochi. Lo Stato, al primo bivio, quello tra giochi ripetuti (si gioca per enne volte, si può collaborare) e immediati (si gioca una sola volta, chi vince vince, si è spinti alla competizione) è un gioco ripetuto.

I giochi ripetuti, a loro volta, si differenziano in giochi finiti e non finiti.

I giochi finiti, anche se reputi, hanno lo stesso equilibrio dei giochi immediati, e questo perché, se i giocatori sanno che il gioco finirà, compiranno come penultima mossa la stessa che compirebbero all’ultima (competere, è l’ultima mossa, non ha senso collaborare). Così, procedendo a ritroso, i giocatori, se hanno certezza che il gioco è finito, compiranno la stessa scelta che compirebbero se il gioco non fosse ripetuto, ma immediato.

I giochi non finiti, invece, per definizione, raggiungono il loro equilibrio Pareto efficiente quando i giocatori collaborano ed il loro stesso equilibrio è generalmente spinto verso la cooperazione. Lo Stato è un gioco ripetuto e non finito tra i cittadini. Essi dovrebbero collaborare.

Ma c’è un problema, la cooperazione dura finché c’è FIDUCIA. Il segreto per cooperare nei giochi ripetuti e non finiti è la fiducia. E come si fa a mantenere alta la fiducia tra individui che non si parlano? Sempre la stessa risposta, lo Stato, questa volta istituzione – lo Stato deve apportare e mantenere intatta tale fiducia, deve fungere da collante tra i tanti giocatori chiamati cittadini.

Stare a guardare non è un atteggiamento costruttivo. Speriamo in uno Stato che ritorni ad essere arbitro di noi stessi.

estratto da http://www.appelloalpopolo.it/?p=13667