Democrazia senza popolo

“Anche se le elezioni continuano a svolgersi e condizionare i governi – ha scritto, nel 2003, Crouch (“Postdemocrazia”)  il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi. La massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve. A parte lo spettacolo della lotta elettorale, la politica viene decisa in privato dall’integrazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici.”

La sostituzione della politica da parte della tecnocrazia è l’ultima, estrema, fase del processo di erosione delle tradizionali forme di rappresentanza democratica. E’ “L’ingranaggio del potere”, titolo di un recente saggio di Lorenzo Castellani, studioso di orientamento liberale,  nel  quale viene stigmatizzata la crisi della  politica, ormai incapace di assumere decisioni coraggiose, coerenti rispetto a specifiche  visioni del mondo, a tutto vantaggio del potere dei tecnici, legittimato – scrive Castellani – dalla  competenza cioè dalla “conoscenza specialistica degli individui, fornita e certificata dalla struttura stessa della società attraverso istituzioni educative, programmi di studio, titoli, esami e concorsi. (…) Di conseguenza i poteri non-elettivi, a carattere tecnico, oggi condizionano la vita dei cittadini e le scelte politiche allo stesso modo, se non forse ancor di più, di quelli elettivi e rappresentativi”. Al fondo c’è  “la riduzione della società a un unico criterio di gestione”, nella pretesa di depoliticizzazione delle decisioni da parte dei fautori della tecnocrazia e nell’ottica di una uniformazione del tutto, al fine di attuare una regolare amministrazione dell’esistente priva di qualsivoglia conflitto politico, ideologico o culturale.

Mario Bozzi Sentieri

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Un bilancio del governo Conte II

Molti riterranno questo mio sfogo un tipico atto di sciacallaggio, perché approfitto della fine della stagione più incosciente della storia politica della nostra Repubblica, perché approfitto di questa fine del Governo di Giuseppe Conte per denunciare le gravi responsabilità di questo carro di Tespi (i carri di Tespi erano dei teatri mobili realizzati attraverso strutture di legno, di cui si servivano i comici del teatro nomade popolare italiano) un carro che dal mese di marzo del 2018, cioè da quasi tre anni, giorno dopo giorno, mese dopo mese, ha distrutto le potenzialità di questo Paese. Il mio non è uno sciacallaggio, perché con un ritmo sistematico (due volte a settimana con i miei blog nelle “Stanze di Ercole”) ho denunciato i comportamenti di una compagine di Governo che ha, in tre anni, distrutto la immagine di uno delle componenti della stessa compagine: mi riferisco al Partito Democratico. Ora, finita questa triste nottata, qualcuno chiederà agli schieramenti che si sono succeduti nella gestione della cosa pubblica dal marzo del 2018 ad oggi un bilancio di ciò che si è fatto e di ciò che non si è fatto. Ed allora avendo seguito in modo capillare tutte le fasi, tutti i vari passaggi penso sia oggi possibile effettuare una serie di quesiti.

Come mai alla fine del 2020, in particolare alla fine del mese di novembre, si è scoperto che nessuno degli interventi del comparto infrastrutture era stato attivato per mancanza dei relativi Decreti attuativi; per mancanza cioè dei provvedimenti necessari per dare concreto avvio alle opere. Si è data subito la colpa ai “burocrati”, sì a quella famiglia dello Stato difficilmente identificabile. Invece no! La responsabilità è della macchina del dicastero o dei dicasteri competenti, che si chiama “Gabinetto” del ministro. Una parte del dicastero che, volutamente e non per ignavia, ha filtrato e spesso bloccato i vari provvedimenti.

Come mai del lavoro prodotto da una Conferenza degli Stati generali, convocata nel mese di giugno del 2020 dal presidente Conte e coordinata dal manager Vittorio Colao, è rimasto solo un documento completamente ignorato; eppure il manager Colao ha coordinato un comitato di esperti, il cui compito era quello di produrre idee e proposte per riformare il Paese sfruttando i fondi europei in arrivo con il Recovery Fund.

Come mai dal 25 luglio 2020 (data di conferma da parte della Unione europea del volano di risorse assegnato all’Italia dal Recovery Fund) al mese di gennaio, cioè in un arco temporale di sei mesi, non si è stati in grado non di pensare, non di scrivere ma di tentare di definire un itinerario di proposte coerente alle Linee guida che nel mese di settembre prima, e poi nei mesi di novembre e dicembre, gli Uffici competenti della Unione Europea avevano correttamente inoltrato ai nostri dicasteri competenti.

Come mai il 20 febbraio 2020 è stato presentato un Piano del Sud, anzi un “Piano Sud 2030, sviluppo e coesione per l’Italia” elencando i vari interventi, definendo varie finalità strategiche, interessanti strumenti mirati ad un rilancio della economia del Mezzogiorno e dell’intero Paese. Però, dopo quasi un anno, non è partito nessun nuovo intervento ma solo si è data continuità a due opere della Legge obiettivo approvate nel 2014 come l’asse Alta velocità/Alta capacità Napoli-Bari ed un lotto della Strada Statale 106 Jonica.

Come mai l’attuale compagine di Governo ha prodotto, nel 2019, una Legge di Stabilità 2020 ricca di risorse in conto esercizio (cioè ricca di assistenzialismo e di sussidi) e priva di risorse in conto capitale (appena 786 milioni destinati in opere pubbliche). Una scelta che trova solo una vergognosa motivazione: garantire la sistematica erogazione annuale di circa 16 miliardi per assicurare gli “80 euro per i salari minimi” ed il “reddito di cittadinanza”.

Come mai questa compagine di Governo ha prodotto una Legge di Stabilità 2021, utilizzando come copertura per oltre il 60 per cento, risorse non disponibili e che forse lo saranno alla fine dell’anno 2021 o addirittura nel primo semestre del 2022, cioè risorse provenienti dal Recovery Fund.

Come mai il Governo non abbia detto nulla su come utilizzare le risorse non ancora impegnate del Fondo di coesione e sviluppo 2014-2020 pari a circa 30 miliardi di euro (risorse da spendere entro il 31 dicembre 2023, oltre tale data si perderebbero definitivamente) invece si è preferito utilizzare quota parte delle risorse del Fondo di coesione e sviluppo 2021-2027, un Fondo ancora non definito e non disponibile, per implementare il valore globale del Recovery Plan, con un importo aggiuntivo di 20 miliardi di euro. In questa operazione è stato penalizzato ancora una volta il Mezzogiorno, in quanto i 20 miliardi per legge devono essere assegnati per l’80 per cento al Sud e invece, in questo caso, sono assegnati al Mezzogiorno solo 4 miliardi.

Come mai l’ex ministro del Sud, Barbara Lezzi e l’attuale ministro, sempre del Sud, Giuseppe Provenzano hanno praticamente spento in modo irreversibile l’attenzione del Governo sulla emergenza Mezzogiorno. La Lezzi, nel 2018, prese visione che del Programma relativo al Fondo di coesione e sviluppo pari a circa 54 miliardi di euro erano stati impegnati solo 24 miliardi e spesi appena 6 o 7 miliardi. E per un anno c’è stato solo un sistematico e ripetitivo annuncio sui rapporti con le Regioni, per dare attuazione ai programmi Pon (Piani operativi nazionali) e Por (Piano operativi regionali). Ma solo annunci, solo impegni e il Sud è rimasto privo di risorse che se spese avrebbero incrementato di almeno 3 punti il Pil del Mezzogiorno. Il ministro Provenzano ha continuato imperterrito nella politica degli annunci, aggiungendo ultimamente una proposta, inserita nella Legge di Stabilità, di esonero contributivo dal versamento dei contributi dei datori di lavoro privati del Sud. Una proposta però, inserita nella Legge ma vincolata al parere della Unione europea.

Come mai questa irresponsabile gestione della emergenza “Taranto”; una emergenza che ha visto come responsabili tre distinti ministri, in questi quasi tre anni di Governo Conte I e Conte II, in particolare il ministro Luigi Di Maio e il ministro Stefano Patuanelli, entrambi responsabili del ministero dello Sviluppo economico e la ministra del Sud, Lezzi. I primi due non sono riusciti in tre anni a ridare continuità funzionale all’impianto siderurgico e la ex ministra Lezzi, variando una delle garanzie contrattuali iniziali, ha praticamente aperto un contenzioso con il gestore. Un contenzioso ancora non risolto, che rischia di trasformarsi in una vera bomba sociale, con la perdita di oltre 20mila posti di lavoro.

Come mai la ministra delle Infrastrutture e dei Trasporti, Paola De Micheli, ha assunto impegni e annunciato piani e programmi molto distanti dalle soglie della concretezza; mi riferisco, solo a titolo di esempio, all’impegno assunto appena nominata di varare entro il 2019 il Nuovo regolamento appalti, al programma delle infrastrutture denominato “Italia Veloce” di importo globale pari a circa 200 miliardi di euro e con una disponibilità, purtroppo non vera come da me denunciato più volte, di 130 miliardi di euro, di aver nominato una commissione di esperti per decidere entro il 15 ottobre 2020 quale scelta effettuare per il collegamento stabile tra la Sicilia ed il continente. Tutti atti che oggi possiamo archiviare come semplici “annunci”.

Come mai, e questo ritengo sia uno degli interrogativi più preoccupanti, nei sedici mesi che separano la Nota di aggiornamento al Def (Documento di economia e finanza), la prima del Conte bis, dall’ultimo scostamento di bilancio approvato per finanziare l’ipotetico decreto “Ristori 5”, il Governo uscente e il Parlamento hanno approvato in 7 occasioni un deficit aggiuntivo per 426,8 miliardi (come riportato da “Il Sole 24 Ore”) a valere sugli anni dal 2020 al 2026. Se si vuole considerare invece il periodo “coperto” dal Recovery Plan, cioè il 2021-2026, i miliardi di indebitamento netto aggiuntivo rispetto al programma iniziale sono 302,6. La cifra supera abbondantemente i 209 miliardi che compongono la quota italiana del Recovery Plan molti dei quali, tra l’altro, sostituirebbero il debito nazionale per finanziare interventi già previsti nei programmi di finanza pubblica. Questo è il difficile e incomprensibile dilemma che non so come sarà possibile sanare e superare, sia nel prossimo Documento di Economia e Finanza sia nelle necessarie attività di correzione della finanza pubblica a partire dall’agosto 2019.

Mi fermo qui perché, ripeto, molti penseranno che questi miei interrogativi se non sono banali forme di sciacallaggio sono, quanto meno, pure cattiverie nel raccontare e nel descrivere il vuoto politico e istituzionale che il “club Conte” ci ha regalato in tre anni, indossando vesti e comportamenti che, a mio avviso, effettuando una lettura dei Governi che si sono succeduti in 70 anni della Repubblica, non siamo in grado di trovare. In realtà, in questi tre anni la compagine di Governo era solo una sommatoria di ministri e non un organo capace di difendere davvero gli interessi del Paese, confermando in tal modo quel detto che recita: dieci incapaci messi insieme non danno vita ad uno capace. Tuttavia, dobbiamo ringraziare il professore Giuseppe Conte, perché in questi suoi tre anni di Governo ci ha fatto capire di nuovo la esigenza di riscoprire l’importanza della competenza e, al tempo stesso, ci ha fatto prendere le distanze dalla miriade di improvvisatori nati nell’arco di pochi anni proprio nel mondo delle istituzioni.

(*) Tratto dalle Stanze di Ercole

http://www.opinione.it/editoriali/2021/02/08/ercole-incalza_conte-governo-sciacallaggio-def-eu-pd-burocrati-colao-taranto-infrastrutture/

I due golpe americani

Oggi quasi tutta l’informazione si chiede cosa stia succedendo in America, dopo che persino il Campidoglio è stato preso invaso da dimostranti  e c’è anche scappato il morto, una donna peraltro veterana dell’Air Force ( qui il video dell’uccisione). La domanda in realtà è mal posta perché questa informazione mainstream dovrebbe invece chiedersi perché abbia minimizzato i giganteschi brogli elettorali (c’è chi dice avvenuti anche grazie a complicità italiane) , perché abbia sempre e comunque demonizzato Trump e invece santificato Biden nascondendone la corruzione e i suoi trascorsi di boia dell’ America Latina. Perché abbia ordinato e pubblicato sondaggi elettorali palesemente falsi, perché abbia drammatizzato fino all’impossibile una sindrome influenzale facendola passare per peste, mettendo la museruola a fior di esperti, bloccando ogni dibattito  e riducendo la scienza a un grottesco feticcio; perché racconta come fossero verità eterne anche le più squallide e assurde balle del potere.  E’ inutile che ora questa informazione si domandi cosa stia succedendo perché essa non sta osservando il problema, ma è parte del problema, ovvero dell’assalto finale alla democrazia e alla rappresentanza da parte di potentati economici che sono poi gli stessi che controllano giornali, televisioni, intrattenimento e sebbene non ancora del tutto, la rete.

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Biosicurezza

Già in un libro pubblicato sette anni fa, che vale ora la pena di rileggere attentamente (Tempêtes microbiennes, Gallimard 2013), Patrick Zylberman aveva descritto il processo attraverso il quale la sicurezza sanitaria, fino allora rimasta ai margini dei calcoli politici, stava diventando parte essenziale delle strategie politiche statuali e internazionali.
In questione è nulla di meno che la creazione di una sorta di “terrore sanitario” come strumento per governare quello che veniva definito come il worst case scenario, lo scenario del caso peggiore.
È secondo questa logica del peggio che già nel 2005 l’organizzazione mondiale della salute aveva annunciato da “due a 150 milioni di morti per l’influenza aviaria in arrivo”, suggerendo una strategia politica che gli stati allora non erano ancora preparati ad accogliere.
Zylberman mostra che il dispositivo che si suggeriva si articolava in tre punti: 1) costruzione, sulla base di un rischio possibile, di uno scenario fittizio, in cui i dati vengono presentati in modo da favorire comportamenti che permettono di governare una situazione estrema; 2) adozione della logica del peggio come regime di razionalità politica; 3) l’organizzazione integrale del corpo dei cittadini in modo da rafforzare al massimo l’adesione alle istituzioni di governo, producendo una sorta di civismo superlativo in cui gli obblighi imposti vengono presentati come prove di altruismo e il cittadino non ha più un diritto alla salute (health safety), ma diventa giuridicamente obbligato alla salute (biosecurity).
Quello che Zylberman descriveva nel 2013 si è oggi puntualmente verificato. È evidente che, al di là della situazione di emergenza legata a un certo virus che potrà in futuro lasciar posto ad un altro, in questione è il disegno di un paradigma di governo la cui efficacia supera di gran lunga quella di tutte le forme di governo che la storia politica dell’occidente abbia finora conosciuto.

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Le illusioni muoiono a Karlsruhe

La miseria europea o meglio il gioco di società nel quale ci siamo dilettati negli ultimi tre decenni perdendo la posta e affossando il Paese è ormai agli sgoccioli: la Corte Costituzionale tedesca pronunciandosi sul quantitative easing della Bce ha sostenuto che l’azione della Banca centrale non ha obbedito al principio di proporzionalità cui era legata, in sostanzia avrebbe acquistato più azioni di Paesi in difficoltà di quanto avrebbe dovuto, finendo così per finanziare di fatto il debito e agendo al di fuori del proprio mandato. Entro tre mesi la Bce e la Lagarde dovrà dire come intende comportarsi in futuro per evitare il ritiro totale della Bundesbank dagli interventi della Banca centrale. La Corte che sorveglia l’unica Costituzione europea che ha ancora un qualche diritto di esistenza ha perfettamente ragione nelle sue osservazioni, anche se le sue perplessità arrivano proprio quando ci sarebbe necessità di uno sforzo finanziario enorme: ma ciò che viene imputato alla Bce è, nella sostanza, di aver in qualche modo surrogato una dimensione politica e comunitaria che invece l’Europa dell’euro non ha e non deve avere, essendo di fatto un puro meccanismo di mercato come attestano i trattati. Adesso proprio nel momento peggiore il banco dice ai giocatori che è momento di chiudere con le aperture di credito sottobanco. E’ un vero scherzo del destino, uno sberleffo, che questa sentenza sia arrivata proprio da Karlsruhe, sede della Corte costituzionale e città più volte premiata come simbolo dell’integrazione europea.

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Italexit?

Intrappolata nel mezzo c’è la vera tragedia umana nel nord Italia, dove migliaia di persone sono morte a causa del mix tossico di insufficienza di infrastrutture mediche, alta concentrazione di persone ad alto rischio e mancanza di conoscenza su come combattere la malattia.

Peggio ancora, il governo italiano è stato messo insieme per guidare questa lotta per gli Eurobond da quando Conte è stato mantenuto al potere per garantire che Matteo Salvini di Lega non arrivassero al governo per combattere Macron e la Merkel, minacciando di lasciare la zona euro.

Sia che tu creda che la risposta dell’UE o, più precisamente, la sua mancanza di risposta alle richieste di aiuti per la situazione dell’Italia sia stata motivata dalla malizia o dall’incompetenza, il risultato è lo stesso. Migliaia di italiani sono morti e questo ha indebolito i legami già deboli tra l’Italia e il resto della tecnocrazia dell’UE.

Come ho scritto in un articolo del 14 marzo:

Quindi nel mezzo di questo pasticcio arriva COVID-19 e con essa la risposta non coordinata e inetta a questa pandemia da parte del centro politico europeo fino ad oggi. Solo ora stanno arrivando alla conclusione che hanno bisogno di limitare i viaggi, dopo essere rimasti seduti per alcune settimane mentre gli italiani sono morti a centinaia.

E pensate che questo stia forse producendo ondate di amore e affetto tra gli italiani verso i tedeschi?
Se lo pensate, allora non conoscete gli italiani … affatto.

E questo è il vero segnale che questo è l’inizio della vera crisi. Perché mentre COVID-19 potrebbe essere stato il catalizzatore per la rottura dei mercati dei capitali, i mercati dei capitali stavano semplicemente aspettando che si verificasse quella scintilla.

Onestamente non ero abbastanza duro nella mia valutazione di quanto stava accadendo allora, ma era chiaro che questa crisi veniva utilizzata per far avanzare i piani integrazionisti dell’UE di Macron e la presidente della BCE Christine Lagarde che cercavano di rafforzare i tedeschi e gli olandesi nella loro posizione intransigente.

Con l’incontro del 26 marzo quel piano è fallito. Rutte, Merkel, il cancelliere austriaco Sebastain Kurz e la Norvegia hanno mantenuto la loro posizione e l’incontro si sarebbe concluso con una scazzottata se non fosse stato tenuto usando le regole di distanza sociale tramite teleconferenza.

Quell’incontro organizzato la scorsa settimana ha visto l’Italia cavalcare l’intransigenza tedesca e olandese. Macron e Lagarde hanno perso, assicurando appena $ 500 miliardi di nuovi prestiti ma nessuna emissione di obbligazioni della BCE. E il problema ora è se Conte parteciperà o meno al programma.

La sua incapacità di agire come agente di vergogna di Macron per garantire il futuro dell’UE mette ora a rischio l’intero progetto europeo perché il governo di Conte è in gravi difficoltà in Italia. Inoltre, questo fallimento è stato probabilmente inaspettato perché ora anche gli europeisti più convinti dell’UE nel governo italiano si chiedono perché facciano ancora parte dell’UE .

estratto da

Strategic Culture https://www.strategic-culture.org/news/2020/04/20/merkel-survives-coronapocalypse-but-eu-wont/

Traduzione: Luciano Lago

Povera patria

Claudio  Borghi, per sventare questo (come chiamarlo? Colpo di mano di un direttore generale?) ha scritto ufficialmente a Centeno,  il portoghese  capo dell’Eurogruppo, per avvisarlo che qualunque approvazione da parte italiana del MES avveniva  senza la  legittimazione parlamentare, anzi contro la volontà del parlamento.

Sogni di ambasciatore

L’Italia dovrebbe dunque agire per suo conto – e a prescindere dalle decisioni che la Germania cercherà d’imporci tra 15 giorni – adottando subito quelle misure che possono mettere in sicurezza la nostra economia. Numerosi bravi esperti e studiosi del libero pensiero hanno esplorato alcune opzioni: l’emissione di CCF (certificati di credito fiscale), di minibot e soprattutto il salto di qualità, l’emissione di biglietti di stato a corso legale senza debito, sulla falsariga delle 500 lire di Aldo Moro negli anni ’60-’70, tutte iniziative che sarebbero pienamente rispettose persino delle norme europee. In particolare, i biglietti di stato a corso legale senza debito costituirebbero un salto quantitativo e qualitativo decisivo, consentendo allo Stato di creare tutta la moneta necessaria all’economia per riprendersi, senza dover gestire le obiettive complicazioni che un’eventuale uscita unilaterale dall’euro implicherebbe.

Gli ostacoli dunque sono altrove, e tutti nella mente dei nostri governanti, chiamati a una responsabilità storica per impedire la distruzione economica e materiale e la definitiva colonizzazione del paese da parte delle fameliche oligarchie tedesche. Il primo ostacolo è l’angoscia che Berlino e Bruxelles possano nutrire il sospetto che l’Italia non intenda onorare i propri debiti; la seconda è rappresentato dalla burocrazia del Ministero italiano dell’Economia e Finanze da sempre inspiegabilmente allineata al mantra tedesco-europeista; la terza è di natura psicologica, riconoscere che le speranze riposte da gran parte dei politici, economisti, intellettuali e accademici nell’euro e in quella chimerica struttura che chiamiamo Unione Europea, sono state mal riposte. La quarta infine, e forse la maggiore, è la seduzione dell’asservimento, vale a dire il piacere malsano dell’ideologia del vincolo esterno, l’ingiustificato convincimento che non riusciremmo mai a risollevarci con le nostre sole forze, quando è vero l’esatto contrario: il benessere costruito dall’Italia nei decenni prima dell’euro, e di cui l’Italia ancora gode nonostante le tragedie odierne, è dovuto solo ed esclusivamente al lavoro e all’ingegno degli italiani.

Alberto Bradanini è un ex-diplomatico. Tra i numerosi incarichi, è stato Ambasciatore d’Italia a Teheran (2008- 2012) e a Pechino ( 2013- 2015). È attualmente Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea

https://www.vision-gt.eu/news/la-grande-occasione-che-litalia-rischia-di-perdere/

Ci sono due guerre e l’Italia è un sonnambulo

di Alberto Negri – 08/01/2020

Ci sono due guerre e l'Italia è un sonnambulo

Fonte: Alberto Negri

Sembriamo dei sonnambuli. Inutile girarci intorno: qual è l’interesse dell’Italia in tutta questa storia? Nessuno ce lo sa dire perchè di tutto quello che sta accadendo non siamo stati neppure informati pur avendo militari in Iraq, Libano, Afghanistan. Inglesi e francesi, molto probabilmente, all’ultimo minuto sono stati avvisati dagli Usa che stavano per colpire il generale iraniano Qassem Soleimani in Iraq. Noi che laggiù abbiamo più di 900 soldati, niente: e ora ci troviamo nel mezzo di un conflitto senza sapere cosa fare. Che il presidente della Repubblica, visto che è capo supremo delle Forze armate, convochi il consiglio di difesa per prendere delle decisioni o almeno esaminare la situazione.

Abbiamo due fronti, quello libico e quello iraniano ma non abbiamo alcuna idea di cosa fare se non compiere giri turistici per le capitali del Mediterraneo. Che siano definiti gli interessi nazionali – politici, energetici ed economici – e vengano resi noti anche a una popolazione, quella italiana, che pensa di vivere in un mondo di frutta candita. Altrimenti anche tenere dei soldati in Iraq diventa un gesto criminale se non è accompagnato da un minimo di consapevolezza. Senza contare che in Libia, a Tripoli, dove abbiamo foraggiato per anni governo e fazioni, adesso comanda Erdogan, un signore che mette in pericolo i nostri rifornimenti energetici nel Mediterraneo o che comunque ne decide adesso le sorti. Ma stiamo scherzando?

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Lotta di classe

In questi giorni si parla molto delle cosiddette clausole di salvaguardia sull’IVA. I media non perdono occasione di ricordarci come, a meno che il futuro governo non sia in grado di “reperire” 23 miliardi nel 2020 e 28 miliardi nell’anno successivo (per mezzo di tagli alla spesa pubblica e/o maggiori tasse), scatterà l’aumento automatico delle aliquote IVA (al 25,2 per cento nel 2020 e al 26,5 per cento nel 2021) previste, per l’appunto, dalle suddette clausole di salvaguardia. Difficile, se non impossibile, però, trovare qualcuno che osi mettere in discussione la logica di fondo di questa falsa alternativa, presentata come una sorta di “legge naturale”.

In realtà, come vedremo, si tratta dell’ennesimo strumento di classe travestito da tecnicismo economico. Per capire perché, partiamo dalle basi. L’IVA (imposta sul valore aggiunto), come sappiamo fin troppo bene, è una tassa – attualmente pari al 22 per cento – applicata a tutti i beni e servizi che vengono acquistati nel territorio nazionale. Come ogni tassa indiretta, si tratta di un’imposta intrinsecamente regressiva, poiché incide maggiormente sui redditi bassi che su quelli alti.

Forse non tutti sanno, però, che l’IVA in Italia non esiste da sempre: essa è stata introdotta nel 1972 – inizialmente al 12 per cento – in attuazione di due direttive europee finalizzate ad armonizzare i sistemi fiscali degli Stati membri in vista di una futura integrazione economica dell’Unione europea (allora nota come CEE).

L’introduzione dell’IVA e più in generale l’adeguamento della legislazione italiana alle direttive comunitarie europee sancì l’avvio di un graduale scardinamento del modello tributario «informato a criteri di progressività» previsto dalla Costituzione repubblicana del 1948 (art. 53). Un sistema informato al suddetto principio non poteva che privilegiare l’imposizione diretta sui redditi – con aliquote diverse a seconda della fascia di reddito, al fine di redistribuire ricchezza dalle fasce alte a quelle basse – rispetto a quella indiretta sui consumi.

Dal dopoguerra fino alla fine degli anni Settanta, infatti, la struttura impositiva italiana fu caratterizzata da 32 scaglioni di reddito ed altrettante aliquote, la più alta delle quali si aggirava intorno al 70-80 per cento, come si può vedere nella figura 1. Le imposte indirette, d’altro canto, erano relativamente basse (soprattutto bolli su prodotti specifici) rispetto al prelievo sui consumi introdotto dall’IVA.

Che l’introduzione dell’IVA rappresentasse una misura antipopolare che avrebbe gravato soprattutto sulle classi più deboli era ben chiaro ai partiti di sinistra dell’epoca. Come notarono i deputati comunisti nella relazione di minoranza sul disegno di legge per la delega al governo per la riforma tributaria, l’IVA avrebbe comportato «il più consistente e più concentrato fattore di aumento – e per giunta per legge – del costo della vita, concentrato sul comparto dei prodotti alimentari che rappresentano una quota di spesa tanto più alta quanto più bassa è la capacità di acquisto del consumatore».

A chi opponeva che l’Italia era tenuta ad introdurre l’IVA per via dei suoi obblighi verso la CEE (il «ce lo chiede l’Europa» ha una lunga storia), i deputati del PCI, al tempo ancora ben consapevoli del nesso inscindibile tra sovranità nazionale e salvaguardia del modello democratico-costituzionale, replicarono che «a nostro avviso nessun obbligo o impegno verso la CEE è superiore all’interesse nazionale». (Per carità di patria eviterò di fare raffronti con l’attuale sedicente sinistra).

Ad ogni modo, la legge fu approvata. Da quel momento in poi, come si può vedere nelle figure 2 e 3, l’IVA – e con essa la pressione fiscale generale – ha continuato inesorabilmente ad aumentare nel corso degli anni, per l’effetto combinato dell’aumento della spesa per interessi (combinato “divorzio”-SME; per maggiori informazioni vedasi https://www.facebook.com/thomasfazi/posts/2351892221570569) e della severa contrazione fiscale richiesta dall’adesione dell’Italia al regime di Maastricht, fino ad arrivare ai livelli improponibili che conosciamo oggi.

Contemporaneamente, a partire dagli anni Settanta e in maniera sempre più decisa nel corso degli anni Ottanta e Novanta, l’aliquota massima sui redditi è scesa altrettanto inesorabilmente (figura 4), distruggendo la progressività delle imposte dirette.

Il risultato è stato il ribaltamento totale della natura stessa del sistema fiscale italiano: da strumento di redistribuzione dall’alto verso il basso – come previsto dalla Costituzione – si è trasformato in un meccanismo di drenaggio delle risorse dai lavoratori e dal ceto medio verso le grandi rendite finanziarie. Un ruolo di spicco in tal senso ha giocato l’aumento incessante dell’IVA, che oggi rappresenta circa il 25 per cento delle entrate tributarie.

L’apice di questo processo si è raggiunto proprio con l’introduzione nel luglio del 2011 – dunque nel pieno della tempesta perfetta orchestrata dalle oligarchie finanziarie, con la compiacenza della BCE, ai danni dell’Italia – della cosiddetta “clausola di salvaguardia” da parte del governo Berlusconi IV (che godeva – è il caso di ricordarlo – dell’appoggio della Lega). Essa prevede, come già ricordato, un aumento automatico delle aliquote IVA e delle accise qualora il governo non sia in grado di reperire le risorse necessarie a soddisfare i vincoli di bilancio europei. Siamo dunque di fronte all’istituzionalizzazione di quel “pilota automatico” che ormai caratterizza da anni la politica economica europea, finalizzata alla definitiva depoliticizzazione e de-democratizzazione del processo decisionale.

Le clausole di salvaguardia sono state attivate per la prima volta da Monti nel 2011 e poi nuovamente da Letta nel 2013. I governi successivi sono invece riusciti a “sterilizzare” le clausole di salvaguardia per mezzo di riduzioni di spesa e aumenti delle tasse, misure che comunque hanno colpito soprattutto i ceti medio-bassi. Per quanto riguarda l’attuale (ormai ex) governo giallo-verde, esso non ha fatto nulla per mettere in discussione il principio della clausola di salvaguardia: non avendo reperito le risorse necessarie per evitare l’aumento dell’IVA nell’ultima legge di bilancio, si è limitato a rinviarne l’entrata in vigore, riservandosi di trovare le risorse in un secondo momento. In questo modo la cifra si è quasi duplicata rispetto agli anni passati: 23 miliardi nel 2020 e 28 miliardi nell’anno successivo, come si diceva, se si vuole evitare l’aumento dell’aliquota IVA al 25,2 per cento nel 2020 e al 26,5 per cento nel 2021.

Questo ci porta alla situazione in cui ci troviamo oggi, in cui il prossimo governo – qualunque esso sia – si troverà a dover scegliere tra tagliare la spesa pubblica e/o aumentare le tasse e aumentare l’IVA. Certo, si potrebbero – e dovrebbero – rivedere drasticamente le aliquote massime, ma è lecito dubitare che questo darebbe gli esiti sperati (almeno in tempi brevi) – e permetterebbe di rispettare i vincoli europei – in un contesto di alta evasione e di piena libertà di movimento dei capitali.

Esiste ovviamente una terza opzione: ripudiare una volta per tutte il perverso meccanismo della clausola di salvaguardia e gli assurdi vincoli di bilancio su cui si basa e abbassare drasticamente l’IVA (il che ovviamente non è in contraddizione con la reintroduzione di un meccanismo tributario fortemente progressivo; anzi, la reintroduzione di forme di controllo sui movimenti di capitali ne rappresenterebbe una condizione probabilmente necessaria). Ma questo vorrebbe dire ripudiare tutta l’architettura di Maastricht, un’ipotesi che al momento non è al vaglio di nessuno dei principali partiti politici.

Thomas Fazi

https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=62456