Troppo debito pubblico danneggia l’economia … ma troppo debito privato la UCCIDE

Troppo debito pubblico danneggia l’economia … ma troppo debito privato la UCCIDE

Lo studio NBER convalida quello che Steve Keen sta dicendo da anni: l’eccesso di debito del settore privato è il motore principale di profonde recessioni e depressioni. Eppure Ben Bernanke e tutti gli altri economisti tradizionali letteralmente ritengono che l‘ammontare del debito privato non ha importanza e che non è nemmeno importante quantificarlo.

Il postino smetterà di suonare

di Marco Bersani

Dopo aver versato, per non più di un minuto, lacrime di coccodrillo sui dati della disuguaglianza sociale nel pianeta, forniti dal rapporto della ong Oxfam – le 85 persone più ricche del mondo detengono una ricchezza equivalente a quella di 3,5 miliardi di persone; l’1% del pianeta possiede il 50% della ricchezza mondiale – il ministro Saccomanni, presente all’annuale Forum di Davos, è passato alle cose serie e, in un incontro con i grandi investitori stranieri, ha annunciato l’avvio dell’ennesimo piano di privatizzazioni, con in testa le Poste Italiane.

Senza senso del ridicolo, è riuscito a dire che l’operazione, che prevede, per ora, la messa sul mercato del 40% del capitale sociale di Poste, comporterà un’entrata di almeno 4 miliardi da destinare alla riduzione del debito pubblico.

Anche ai più sprovveduti credo risulti chiara l’inversione del contesto: Saccomanni dice di voler privatizzare le Poste per ridurre il debito pubblico, mentre è evidente come il debito pubblico sia solo l’alibi – lo shock teorizzato da Milton Friedman – per permettere la privatizzazione di un servizio pubblico universale.

Bastano due semplici operazioni di matematica: la vendita del 40% di Poste Italiane porterebbe il debito pubblico da 2.068 a 2.064 miliardi, con un entrata una tantum non riproducibile, e nel contempo eliminerebbe un’entrata annuale stabile di almeno 400 milioni/anno (essendo l’utile di Poste Italiane pari a 1 mld).

Ma, ovviamente, non c’è dato che conti quando l’obiettivo è quello di dichiarare una vera e propria guerra alla società, attraverso la progressiva spoliazione di diritti, beni comuni, servizi pubblici e democrazia, all’unico scopo di favorire l’espansione dei mercati finanziari.

E, d’altronde, la messa sul mercato del 40% di Poste è la naturale prosecuzione di un processo di trasformazione del servizio, in corso già da quando l’azienda dello Stato è diventata una SpA: da allora abbiamo assistito a più riprese – tutte avvallate dagli accordi sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil di categoria – al progressivo smantellamento del servizio postale universale, con relativo attacco alle sue prerogative di uniformità di servizio su tutto il territorio nazionale, di tariffe contenute e di soddisfacente qualità del recapito.

Ciò che si vuole perseguire, con la definitiva privatizzazione, è lo smantellamento della funzione sociale di Poste Italiane, attraverso la separazione di Banco Posta dal servizio di recapito, trasformando il primo – già oggi ricettacolo di molteplici attività finanziarie – in una vera e propria banca e mettendo sul mercato il secondo.

Con la naturale conseguenza che i servizi postali saranno garantiti da una miriade di soggetti privati, solo laddove adeguatamente remunerativi (grandi città e grandi utenti) e smantellati, o a carico della collettività con aumento incontrollato dei costi, in ogni territorio dove il rapporto servizio/redditività non sarà considerato adeguato.

Senza contare il fatto che, con questa operazione, anche tutta la funzione di raccolta del risparmio dei cittadini, oggi svolta dagli oltre 13.000 uffici postali, che convogliano il denaro raccolto a Cassa Depositi e Prestiti, verrebbe messa a rischio o profondamente trasformata.

Stiamo già sentendo le consuete sirene ideologiche di accompagnamento: la vendita del 40% non intaccherà il controllo pubblico, mentre nel capitale sociale verranno coinvolti i lavoratori e i cittadini risparmiatori, in una sorta di azionariato popolare e democratico.

Credo che tre decenni di privatizzazioni abbiano già fornito gli elementi per confutare entrambe le tesi: l’entrata dei privati nel capitale sociale di un’azienda pubblica ha sempre e inevitabilmente comportato la trasformazione della parte pubblica in soggetto finalizzato all’unico obiettivo del profitto; l’azionariato diffuso tra lavoratori e cittadini, aldilà delle favole sulla democrazia economica, è sempre servito a immettere denaro nell’azienda, permettendo agli azionisti maggiori – i poteri forti – di poterla possedere senza fare nemmeno lo sforzo di doverla comprare.

Ogni smantellamento di un servizio pubblico universale consegna tutte e tutti noi all’orizzonte della solitudine competitiva: ciascuno da solo sul mercato in diretta competizione con l’altro.

Opporsi alle privatizzazioni, oltre a fermare i processi di finanziarizzazione della società, consente di riaprire lo spazio pubblico dei beni comuni e di un altro modello sociale.

Perché il futuro è una cosa troppo seria per affidarlo agli indici di Borsa.

 Di Marco Bersani , dirigente del movimento Attac Italia

http://www.lolandesevolante.net/blog/2014/01/il-postino-smettera-di-suonare/

Il governo, gli italiani e la rana bollita

di Monica Montella e Franco Mostacci

L’esperimento della rana bollita dimostra che se si getta una Boiling_Frogs_Picrana viva in una pentola d’acqua bollente salterà fuori, ma se si mette una rana in una pentola d’acqua fredda e poi si aumenta gradualmente la temperatura fino ad ebollizione il povero animale finirà lesso.

Un test crudele, è vero, ma è esattamente quello che il Governo italiano fa con i suoi cittadini.

L’esperimento è già riuscito nel 2012, quando il governo Monti dichiarò nel Documento di Economia e Finanza (Def) di aprile che il Pil sarebbe diminuito solo dell’1,2%, il rapporto indebitamento/Pil sarebbe stato dell’1,7% e il rapporto debito/Pil del 123,4%.

Passano pochi mesi e nella nota di aggiornamento al Def di settembre del 2012 si scopre che la discesa del Pil è raddoppiata al 2,4%, il rapporto indebitamento/Pil è peggiorato al 2,6% come il rapporto debito/Pil è cresciuto al 126,4%.

A conclusione dell’anno 2012 con la pubblicazione dei dati di consuntivo si scopre che il boccone è ancora più amaro. Confermata la caduta del Pil al 2,4%, il rapporto indebitamento/Pil ha toccato il 3% (a dir la verità lo ha superato di 653 milioni di euro) e il rapporto debito/Pil è arrivato al 127%.

Di essere stato lessato il cittadino italiano non se ne ancora reso conto. Con una pressione fiscale al 44% e un pagamento di 86,7 miliardi di euro di interessi pagati nel 2012 per un crescente debito pubblico che come ha abbiamo già dichiarato trasferisce risorse finanziarie dalle tasche delle famiglie a quelle dei mercati farebbe agitare chiunque ne avesse coscienza.

Ma il cittadino italiano sta morendo lentamente e non lo sa, infatti nella tornata elettorale di febbraio del 2013 ha sostanzialmente confermato le stesse forze politiche.

Dopo aver illuso gli italiani il professor Monti affermava che la crisi economica stava volgendo al termine vedendo una luce alla fine del tunnel e che il vincolo europeo del 3% di indebitamento netto rispetto al Pil sarebbe stato rispettato. FALSO!

Mettendo Enrico Letta al posto del professor Monti l’esperimento prosegue anche nel 2013 e sta dando i suoi frutti, con la pubblicazione della Nota di aggiornamento al Def si è tornati alla brusca realtà.

Ma i cittadini italiani continuano a non esserne coscienti.

Eppure era evidente fin da aprile di quest’anno, con il Def 2013, che la finanza pubblica italiana non era nella situazione che il Governo descriveva nei suoi documenti ufficiali. Quei numeri erano stati costruiti ad arte per dare una visione meno pessimistica possibile della realtà, ben sapendo che per dire esattamente come stava l’economia del nostro paese ci sarebbe sempre stato tempo. Ma quale tempo?

Un esempio significativo di un dato allegro presente nei documenti ufficiali era il previsto aumento delle entrate contributive di 3,7 miliardi (+1,7% sul 2012) che era evidentemente una chimera in presenza di un mercato del lavoro asfittico.

Con il monitoraggio congiunturale del primo e del secondo trimestre 2013 anche coloro che continuavano a credere alle favole del Governo hanno iniziato a ricredersi.

Gli unici che continuavano a ripetere come un mantra ossessiva che non ci sarebbe stata alcuna manovra correttiva erano gli esponenti della compagine governativa, che a fine agosto, più per calcoli politici che economici, hanno cancellato l’acconto dell’Imu sulla prima casa.

L’amara realtà è che anche la Nota di aggiornamento al Def diffusa in questi giorni contiene stime troppo ottimistiche e obiettivi irraggiungibili da qui alla fine dell’anno. Cerchiamo di scoprirlo insieme.

http://www.scenarieconomici.it/il-governo-gli-italiani-e-la-rana-bollita/