Kosovo

Fonte: Cultura e identità

autoproclamatosi indipendente dalla Serbia il 17 febbraio 2008

Molti, in Occidente, fanno fatica a comprendere le ragioni dell’attaccamento serbo al Kosovo. In un’ottica geopolitica, o anche solo politica, la questione balcanica resta sconosciuta alle élite culturali e politiche che sostengono l’indipendenza kosovara. Manca la volontà di capire le ragioni profonde – spirituali, mitiche e culturali che per secoli hanno spinto la nazione serba a includere quella regione nel suo Stato e nella sua Chiesa.

A due decenni dal bombardamento della Serbia, una tragedia che ha lasciato in eredità una profonda incomprensione tra il popolo serbo e l’Europa, gli intellettuali occidentali ancora si interrogano, preoccupati, sui motivi dell’irrazionale resistenza di una piccola nazione all’usurpazione di una piccolo porzione del suo territorio. Non mi riferisco all’Italia, che già vent’anni fa aveva messo in guardia dalle conseguenze legate a una simile scelta. In particolare la Lega, unico partito europeo filo-serbo, seppe prevedere il pericolo rappresentato da un’invasione islamica che avrebbe coinvolto innanzitutto le coste italiane una volta destabilizzata la penisola balcanica.

Ma perché i Serbi si ostinano a non accettare la perdita del Kosovo? Molti ritengono che la ragione vada cercata nel fatto che proprio lì ebbe origine il primo stato serbo nel Medioevo, dopo l’occupazione bizantina; questo è vero: per i serbi il Kosovo è stato la culla non soltanto dell’identità politica serba, ma anche di quella idea di libertà senza la quale nessun popolo può darsi una dimensione storica. Altri pensano che il vero motivo sia legato alla presenza, nello spazio kosovaro, di ben 1300 tra templi e monasteri cristiani edificati nel corso dei secoli. Altri, infine, attribuiscono l’ostinazione serba a una questione di principio, ovvero alla di vedere rispettate la sovranità e la Costituzione di Belgrado, nonché il diritto internazionale.

Tutte queste ragioni nel loro insieme giustificano la volontà di difendere a oltranza una regione considerata il centro originario di una Nazione: eppure, abbiamo molti esempi nel passato che ci ricordano che, pur di sopravvivere, altri popoli hanno accettato di rinunciare a porzioni del loro territorio, sebbene li considerassero sacri per il loro valore storico. Il caso in questione, però, presenta una sua peculiarità: durante i cinque secoli di occupazione turca il popolo serbo, disperso, non smise mai di sognare di poter un giorno tornare ad abitare in Kosovo e quando nel XIX secolo fu ripristinato uno Stato nazionale indipendente un po’ più a nord, la gente continuò a desiderare di poter un giorno far ritorno nella patria originaria. Ancora vent’anni fa, al termine dei bombardamenti, allorchè le grandi potenze promisero un certo grado di autonomia alla regione del Kosovo, il popolo serbo decise di opporsi  e resistere ad ogni costo alla sua perdita. Una forza più potente delle bombe e delle esplosioni fece sentire in quel momento la sua voce, una voce proveniente dalle profondità del tempo, e che affermava che la rinuncia a quel luogo da cui aveva avuto origine, avrebbe significato l’annientamento dell’identità del popolo serbo e della sua storia, oltre al fallimento di quella missione che dava senso alla sua esistenza.

630 anni fa, in Kosovo, ebbe luogo una grande battaglia tra l’esercito cristiano serbo e quello islamico turco, dall’esito incerto e in cui entrambi i sovrani furono uccisi. Prima della battaglia i turchi fecero al Re un’offerta: accetta l’occupazione e il nostro ordine islamico, paga il tributo al Sultano e noi in cambio ti lasceremo in vita e rispetteremo la tua autorità sul popolo e i tuoi beni.

Dalla decisione del sovrano serbo Lazar non dipese in quel momento soltanto il futuro del popolo serbo, ma dell’Europa intera. E fu così che in quel momento avvenne il miracolo e la volontà di Dio si incarnò nel destino della nazione serba. Ai pragmatici calcoli politici, Lazar preferì tener fede a quei valori che plasmano le genti, ne modellano la storia e ne determinano il destino, qualunque esso sia. Rifiutò l’offerta turca pur di non pagare la conservazione delle sue ricchezze e del suo potere al prezzo del proprio onore, della dignità e della libertà nazionale, perché questo avrebbe significato accettare l’umiliazione di sottomettersi allo straniero e alla sua religione. Per i turchi, infatti, quella in atto era una guerra santa, combattuta sotto la bandiera dell’Islam e per Lazar, arrendersi, avrebbe significato tradire il suo popolo, la sua storia, la sua famiglia e ciò che rappresentavano. Avrebbe significato tradire Cristo.

Incurante delle conseguenze, Lazar scelse di non tradire, consapevole della missione storica affidata ai serbi: difendere non soltanto la propria indipendenza, ma la libertà della più ampia comunità di genti a cui appartenevano, quella dei popoli europei. Secondo il poema popolare che ne canta le gesta, Lazro riassunse la sua decisione in una sola frase: “Quello terrestre è un piccolo regno, quello celeste dura in eterno”.

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Tutto fa PIL

Tutto fa PIL

Secondo dati più recenti, quello dell’immigrazione rappresenterebbe un enorme business da 1.800.000 euro al giorno per i professionisti dell’accoglienza. O almeno è quanto testimoniano bilanci riguardanti l’intero 2013, anno in cui l’Italia si è trovata ad accogliere 40.244 migranti. Ma non è finita qui, perché la spesa media per ogni immigrato ammonta a circa 45 euro al giorno, spese enormi se consideriamo che tale somma può raggiungere i 70 euro per i minorenni. Emblematico è il caso del Cara di Mineo, a Catania, centro di accoglienza dove gira un affare di circa 50 milioni di euro all’anno. Oltre al “Consorzio Calatino Terre di accoglienza”, dentro il sistema ci stanno importanti multinazionali come la Legacoop o la Croce Rossa, tutte pronte a trarre enormi profitti sulla pelle dei migranti.

Roberta Barone