Le ragioni dell’1%

Passare l’aliquota massima su i redditi, dall’80% al 28% come fece Reagan, va letto solo e soltanto come esplicito incentivo alla delinquenza.

Pensare che nel capitalismo, qualcuno becchi un sacco di soldi senza motivo per così lungo tempo solo perché i controllori dell’impresa non sono più controllati o perché imperversa una ideologia estremistica del merito (apparente) è assai ingenuo. Passando dal profitto della produzione, alla produzione di profitto in sé per sé, la nozione di merito è passata ai valori della furbizia, della apparenza seducente, della intraprendenza delinquenziale. L’inflazione dei mercati della droga, delle cure psichiche, della farmaceutica dell’umore nelle capitali anglosassoni, si spiega direttamente con l’evidente crisi dell’anima che questo circo della “malavita del valore” produce. Del resto, una disciplina, l’economia, che nasce nella filosofia morale e da questa si emancipa per liberarsi da vincoli ritenuti restrittivi non può che giungere a questi esiti di morale negativa. Altresì, questa deriva non è reversibile, non si è trattato di uno sbandamento in curva correggibile ma del portato inevitabile della necessità di lasciare l’economia di produzione e scambio ai nuovi paesi emergenti e garantirsi un posto al sole, sovraintendendo la circolazione del capitale finanziario.

estratto da http://pierluigifagan.wordpress.com/2014/10/20/la-razionalita-dell1/

Manager in fuga?

Manager in fuga?

Moretti, l’AD di Trenitalia (nel 2012 ha dichiarato più di un milione di euro, ovvero più di 87.000 euro al mese) che ha notevolmente peggiorato il servizio dei pendolari favorendo i treni ad alta velocità e ora chiede che i pendolari paghino il doppio dell’attuale tariffa, sostiene che se si tagliasse lo stipendio dei manager questi andrebbero via dall’Italia. Ergo, bisogna tassare, ancora una volta, i pensionati e gli operai che all’estero non possono andarci. O magari tagliare la sanità pubblica, tagliare i finanziamenti alla scuola e ridurre i servizi offerti ai cittadini.

Massimo Ragnedda

+ Stato – Mercato

In rete si trovano molti interessanti articoli sul tema, la nostra tesi la vedete nel titolo e proviamo ad articolarla per temi; iniziamo da un estratto da Federalist:
“Il credo secondo il quale il mercato è mondiale e bisogna eliminare ogni ostacolo al libero commercio internazionale, ha giustificato una ancora più decisa deregulation negli anni Novanta, soprattutto negli Stati Uniti, a partire dal settore finanziario, con il benestare del Fondo monetario internazionale: “Liberalizzazione dei mercati finanziari e dei capitali significava che le banche estere potevano ottenere guadagni elevati sui prestiti, e quando i prestiti diventavano inesigibili, l’FMI imponeva la socializzazione delle perdite, il che significava mettere sotto grande pressione intere popolazioni per rimborsare le banche estere”.[5] “Le istituzioni finanziarie globali… sollecitavano (i governi) ad adottare le teorie economiche liberali note con il termine di ‘Washinghton Consensus’, che consiste sostanzialmente di tre idee: disciplina fiscale e di bilancio; economia di mercato comprensiva di diritti di proprietà, tassi di cambio in competizione, privatizzazioni e deregolamentazione; e apertura all’economia globale attraverso la liberalizzazione del commercio e degli investimenti esteri diretti”.[6]
Come ha osservato Stiglitz, “l’amara verità è che le innovazioni nei mercati finanziari americani erano mirate ad aggirare le regole, le norme contabili e l’imposizione fiscale”, e a svuotare in particolare la legge Glass-Steagal del 1933 che invece aveva separato “le banche commerciali (che prestano denaro) dalle banche di investimenti (che organizzano la vendita di obbligazioni e azioni) per evitare i chiari conflitti di interesse che vengono a crearsi quando la stessa banca emette azioni e concede prestiti”.[7] Quella legge aveva infatti avuto anche lo scopo di “fare in modo che le persone incaricate di custodire il denaro del comune cittadino nelle banche commerciali non intraprendessero attività rischiose come quelle delle banche di investimenti, il cui obiettivo è massimizzare i guadagni di chi già è ricco”. Con la sua abrogazione venne “meno la separazione fra banche di investimenti e banche commerciali e quelle di investimento hanno preso il sopravvento”.[8] E infatti, la crisi dei mutui americani, che ha dato origine alla più grave crisi del sistema capitalistico occidentale dopo il 1929, non è stata altro che la conseguenza della rottura di questi delicati meccanismi di regolazione, che ha consentito alle istituzioni finanziarie di favorire, contro ogni logica, il fatto di legare il valore dei beni immobiliari a prodotti altamente speculativi.[9]
Qui incontriamo il punto chiave della Glass-Steagall Act, una legge che separava le banche commerciali da quelle di investimento attraverso il divieto di impiegare i risparmi dei cittadini in attività diverse da quelle dell’erogazione del credito.Tale divieto fu introdotto in Italia nel 1936 attraverso la cosiddetta ‘Riforma Menichella’ (che prese il nome dall’allora direttore generale dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale, successivamente nominato, nel 1947, Governatore della Banca d’Italia).

Malauguratamente Draghi l’abolì nel 1993 e tutto quello che è successo dopo non è una coincidenza (cfr.http://finanzaedintorni.info/tag/glass-steagall-act/)