di Roberto Nardella
Agli inizi degli anni ’70 nei Paesi avanzati occidentali si andava facendo strada una evenienza: la relativa perdita di potere dei ceti ricchi (renditieri) a discapito delle classi operaie.
Tutto ciò non avveniva per caso: dalla fine della seconda guerra mondiale, e dalla ricostruzione che ne seguì, l’industria si dovette man mano piegare alle crescenti pretese salariali dei lavoratori. Il lavoro era abbondante e i margini di crescita enormi. Questa miscela, unitamente alla solidarietà post-bellica tra imprenditoria emergente e manodopera, mise le fondamenta alla creazione della classe media, spiazzando momentaneamente l’ancien régime.
Dal 1950 i sindacati cominciarono a riunire sotto le proprie sigle centinaia di migliaia di lavoratori: grazie alla lotta di classe gli aumenti salariali e di diritti degli operai, costellati di scioperi e rivolte anche più o meno cruente, non tardarono a dare i loro frutti. La classe lavoratrice aveva capito e fatto suo un concetto fondamentale: senza del loro apporto NULLA poteva essere creato.
Gli industriali, loro malgrado, furono costretti a far partecipare in maniera crescente ai lauti utili aziendali la forza lavoro che, guadagnando più del necessario al mero sostentamento, cominciò ad avere capitale disponibile, oltre che per una spesa maggiore che fece crescere vertiginosamente l’economia di detti Paesi, anche per investimenti in beni strumentali che accrescevano ancora maggiormente i loro introiti. Moltissimi operai lavoranti nelle zone industrializzate, con i risparmi derivanti da privazioni ed enormi sacrifici, compravano case e terre nei loro luoghi di origine dandole poi in affitto o aprivano piccoli commerci affidati agli altri membri della famiglia che non erano impiegati, creando di conseguenza altra ricchezza aggiuntiva.
Negli anni ’70, grazie soprattutto ad investimenti statali mirati, il PIL nominale procapite dei Paesi industrializzati cresceva prepotentemente, sostenuto dai consumi di quella classe operaia che ambiva a scalare la piramide sociale, portandola ad un graduale livellamento, e che, finalmente, poteva assicurare un’istruzione e una aspettativa di vita migliore alla propria progenie. Tutto questo non andava troppo bene agli industriali e ai renditieri, benché anch’essi ne traevano immensi benefici: dove sarebbe arrivato il popolino di questo passo? Avrebbe sicuramente e per sempre sfaldato quella piramide di cui costoro erano da sempre stati all’apice, mettendo alla fine in pratica il sogno socialista.
Non è un caso che la via alla globalizzazione si avviò alla fine di quel decennio: nel 1979, grazie alla corrente conservatrice di Milton Friedman, la Gran Bretagna della lady di ferro Margaret Thatcher e a seguire (1981) gli USA del presidente repubblicano Reagan cominciarono a smontare i diritti acquisiti dai lavoratori in tanti anni di dure lotte sindacali e ad aprire la via dell’emigrazione industriale di massa verso lidi più convenienti, dove produrre sarebbe costato anche il 70% in meno. La deindustrializzazione di due delle maggiori potenze manifatturiere dell’epoca aveva avuto inizio, e fu l’esempio da seguire per molti altri Paesi.
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