Perché non bisogna pagare il debito

di Chiara Filoni 15 aprile 2015

I numeri in Grecia parlano chiaro: il debito pubblico rappresentata oggi il 175% del prodotto interno lordo del paese, mentre nel 2007, immediatamente prima della crisi e delle cosiddette misure di “salvataggio”, non superava 103%. Il Pil è diminuito del 25% in quattro anni. La disoccupazione si attesta a 27% e supera il 50% tra i giovani.

A seguito del memorandum del 2012 imposto dalla Troika alla Grecia, il salario minimo è diminuito del 22% per i lavoratori con più di 25 anni, e del 32% per i restanti. In generale, i salari sono stati ridotti del 38% e le pensioni del 45%. Sono inoltre state imposte riduzioni significative della protezione dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici (libertà di associazione e di contrattazione collettiva), senza contare le privatizzazioni e la svendita del patrimonio pubblico; oltre a tutto ciò che ne consegue in termini di recessione e perdita in entrate per lo Stato greco. Queste le barbare misure di austerità imposte da BCE, Commissione Europea ed FMI, (la Troika, per l’appunto), a partire dal 2010, anno del primo memorandum.

Risultato: quasi il 50% della popolazione greca vive con un reddito al di sotto della soglia di povertà (cifra che si attestava al 20% nel 2008). L’accesso a cure mediche, educazione, a un salario giusto, ma spesso anche al riscaldamento, oggi sembra essere un privilegio.

E tutto ciò per cosa? In nome del rimborso di un debito la cui contrazione non ha mai beneficiato la popolazione.

C’è tutto questo dieto la vittoria elettorale di Syriza lo scorso 25 gennaio. Una luce alla fine del tunnel per il popolo greco; la possibilità di un riscatto, di giustizia. E, in termini pratici, come ha puntualizzato Manolis Glezos, partigiano e membro del Parlamento Europeo con Syriza, una speranza per abolire il regime di austerità, strategia imposta non solo dalle élite tedesche e dai paesi creditori, ma anche dall’oligarchia greca. Oltre che una speranza per l’annullamento del debito: una proposta radicale che nessun altro partito al governo di nessun altro paese europeo aveva mai osato esigere prima d’ora.

Il debito pubblico greco, infatti, non solo è insostenibile da un punto di vista economico (l’insostenibilità risiede nell’impossibilità di assumere le obbligazioni che vengono dai contratti di debito), ma sopra ogni altra cosa illegale (perché viola le procedure interne alla Costituzione greca e più in generale le convenzioni internazionali a cui la maggior parte dei paesi del mondo aderisce) e illegittimo (ovvero rispondente ai bisogni di una minoranza, quella dei creditori, e non della maggioranza della popolazione).

L’ammontare totale del debito del paese è di poco più di 300 miliardi di euro, di cui l’80% è detenuto dalla Troika, mentre il restante 20% è legata a delle obbligazioni emesse dallo Stato greco e acquistate dalle banche greche. La parte sostanziale di questo debito proviene dunque dai “salvataggi” operati dall’Unione Europea nel 2010 e 2012, ognuno accompagnato da un memorandum, vera causa delle conseguenze sopra descritte.

Leggi tutto su http://www.nuovatlantide.org/grecia-perche-non-bisogna-pagare-il-debito/

2 thoughts on “Perché non bisogna pagare il debito

  1. Sono convinto da tempo che Matthew Yglesias abbia centrato un punto molto importante quando ha notato che i politici dei paesi piccoli in genere hanno degli incentivi personali ad assecondare le richieste della troika, anche se questo vuol dire andare contro gli interessi del loro paese:

    “Normalmente si può pensare che la soluzione migliore per il Primo Ministro di un paese sia quella di tentar di fare delle cose che rendano più probabile la sua rielezione. Per quanto le prospettive siano desolanti, questa è la strategia dominante. Ma in un’era di globalizzazione e di EU-rizzazione, penso che i leader dei paesi piccoli si trovino in una situazione piuttosto diversa. Se quando si lascia la carica si è riusciti a ottenere la stima dell’establishment di Davos, allora c’è sempre un posto alla Commissione Europea, o al Fondo Monetario Internazionale, o in qualche carrozzone del genere, al quale si può accedere anche se si è assolutamente disprezzati dai propri compatrioti. Anzi, in un certo senso essere odiati sarebbe un pregio. La dimostrazione ultima della solidarietà nei confronti della “comunità internazionale”, sarebbe di fare quel che vuole la comunità internazionale, anche di fronte ad una forte resistenza da parte dell’elettorato del proprio paese.”
    http://www.nuovatlantide.org/grecia-legami-che-non-uniscono/
    Questo spiega anche la differenza tra Italia e Grecia: noi i nostri rappresentanti negli organismi internazionali li abbiamo dall’inizio (Draghi, Monti, Letta, Padoan)

  2. L’illusione storicista e umanitaria degli europeismi è presente tanto nell’europeismo mazziniano, in quello giacobino-bonapartista, in quello conservatore e massonico, in quello federalista e antifascista del Manifesto di Ventotene e in quello cattolico e conservatore di Schumann, De Gasperi e Adenauer.

    Ma oggi, nessuno di questi europeismi è in grado di rispondere alle esigenze del momento. Quanti hanno fatto di tutto, da quel 9 maggio del 1950 nel quale Robert Schumann annunziò il suo piano per la costituzione della Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio sancita nel trattato di Parigi del 18 aprile 1951, per evitare la nascita di un’effettiva unione politica, hanno avuto fino ad oggi un successo che la situazione attuale non sembra per nulla in grado d’intaccare

    Da allora, infatti, la dinamica dei successivi trattati e della successiva fondazione di realtà istituzionali quali Commissione europea, Parlamento europeo e Consiglio d’Europa si è mossa nella prospettiva di un’invasiva attenzione per le faccende finanziarie, economiche e fiscali gestite da una tecnocrazia burocratica che da Bruxelles e da Strasburgo si è rivelata tanto invasiva nel piano del quotidiano quanto inesistente sul piano intellettuale, storico e geopolitico.

    La mancanza cronica e sistematica di una politica volta a fondare nei differenti paesi dell’Unione quanto meno le premesse per una scuola europea, creatrice di futuri cittadini, nella quale si insegnassero le linee di un comune passato continentale; l’identificazione della storia europea in un’astratta e grottesca linea ininterrotta della ‘civiltà occidentale’ dall’antica Grecia alla Modernità; la sostanziale mancanza di articolazione espressa nell’ignoranza della concezione e dell’elaborazione di una cultura europea comune (diciamo pure di un senso identitario europeo) che ha condotto a una vera e propria ‘afasia costituzionale’, come si è visto quando non si è riusciti a superare l’impasse di un ‘preambolo’ che introducesse un progetto di costituzione europea: queste le tappe dello stallo di un’Unione europea ormai arrivata a ventotto Stati, ai quali altri magari se ne aggiungeranno, ma tuttavia succube non più tanto della potenza statunitense, che sembra ormai a sua volta consapevole di aver esaurito il suo ruolo, quanto dei ‘poteri forti’ finanziari ed economici mondiali che non s’identificano né si esauriscono all’interno degli stati, bensì vanno molto al di là di essi riducendo le classi politiche dei singoli Stati europei a loro ‘Comitati di Affari’.

    E siamo con ciò pervenuti al centro del problema. Dopo il 1945, la vera natura dei tempi che si stavano preparando sfuggì ai politici che, salvo quelli fino da allora impegnati nell’elaborazione, con leggi adeguate, scenari sempre più favorevoli alle varie lobbies, si lasciarono attrarre tutti dal fantasma della Guerra fredda e su questa base pretesero un allineamento antagonistico del mondo senza curarsi né del fatto che la politica statunitense e quella sovietica, anziché opposte, erano in realtà complementari.

    Ma qualcuno s’era accorto di qualcosa. Come il presidente Eisenhower che nel 1961, alla vigilia della sua uscita di scena, avrebbe denunziato con forza – inatteso, incompreso, frainteso – il legame intricatissimo e letale di interessi militari, civili, industriali, i gestori del quale stavano già spartendosi il dominio del mondo.

    Oggi il loro potere è cresciuto in maniera tanto esponenziale che è evidente quanto i singoli governi siano incapaci di gestire la politica se non in funzione degli interessi lobbistici. La distruzione dei continenti africano e latino-americano, l’impoverimento di massa, il flusso di migranti in Europa: questi sono i mali ai quali l’Unione europea non ha saputo porre rimedio.
    http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=50858

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